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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

MALINCONICI QUESTI ANNI. SI VIVEVA MEGLIO VENTUN SECOLI FA

[Intervista a Sebastiano Vassalli] –

C’è riuscito di nuovo. Sebastiano Vassalli ha compiuto un altro prodigioso e duplice tuffo nella memoria e nell’immaginazione, e dal fondo opaco del tempo ha recuperato una storia. Il memorabile racconto di una delle battaglie più sanguinose e meno conosciute, anzi più travisate, del passato, il massacro dei Cimbri per mano di Caio Mario, un secolo prima di Cristo, in quella che oggi è la disciplinata campagna del Piemonte orientale e allora era una landa selvatica, è il tema del nuovo romanzo: Terre selvagge (Rizzoli, pag. 297, euro 18).
E la storia lo aspettava proprio lì, sotto il terreno della valle del Po che oltre duemila anni fa era un Far West di torrenti, acque morte, boschi e pianure alluvionali, sotto la presenza bianca del Monte Rosa e che oggi circonda, addomesticata, la casa – una canonica bianca tra Novara e Biandrate – dove lo scrittore, settantaduenne, vive da più di vent’anni, indaffarato a portare a galla vicende che l’uomo ha preferito dimenticare o travisare.
Nell’estate dell’anno 652 dopo la fondazione di Roma (101 a.C.), la vita tranquilla del fabbro Tasgezio, celta (ma gallo, per i Romani), è sconvolta dall’avvicinarsi e poi dallo scoppio di una delle più cruente battaglie di sempre. Dopo vent’anni di scorribande, dalla regione dell’odierna Danimarca da cui provenivano, fino a Lisbona, passando per il Danubio, annientando lungo la strada due eserciti consolari romani, i Cimbri hanno attraversato il Brennero, e dopo aver sconfitto ancora i Romani comandati dal proconsole Lutazio Catulo e dal luogotenente Lucio Cornelio Silla, si sono fermati a sud di Vercelli, pronti a scatenare l’assalto decisivo a Roma. A opporsi, l’ultimo esercito di cui dispongono i Romani, l’armata di plebei riunita da Caio Mario.
E lì, su quei “Campi Raudii” (che è il sottotitolo del libro), le terre selvagge racchiuse tra il Po e i fiumi che scendono dalle Alpi, cadranno duecentomila Cimbri e morirà un popolo. Caio Mario vivrà l’apice della sua carriera e, con la bonifica conseguente alla legge agraria decisa dopo la vittoria, cambierà per sempre il paesaggio.

Riesumare un passato nascosto. La cronaca della battaglia s’intreccia con quella del destino dei Celti (o Galli), pacificamente nascosti nei piccoli villaggi, dei brutali Cimbri, vittime di quel delirio di onnipotenza che li annientò. Vengono descritte le astuzie delle legioni romane per sopravvivere al caldo feroce; l’amore tra Tasgezio e una delle figlie del condottiero dei Cimbri, ultimi superstiti di un’epoca più pura e al tramonto e che avrebbe lasciato spazio al dio del progresso, all’addomesticamento dei fiumi, con quei ponti che sono come selle per i cavalli.
Sebastiano Vassalli, da buon pescatore di storie di profondità, come già per Antonia, la sventurata orfanella e strega di Zardino dell’altro e celebre romanzo La chimera, ha trovato il modo di smuovere la terra a fondo, per riesumare un passato nascosto oggi sotto una superficie piatta e muta, che accompagna la strada che, tra risaie, rotatorie e villette a schiera, mi conduce alla grande casa dello scrittore. Il cielo di fine marzo è già biancastro, come quello che stancò i Cimbri prima della battaglia, massacrati, oltre che dalla canicola di agosto, dal tormento notturno delle zanzare.
Com’è stato scrivere Terre selvagge? «Piacevole. La storia era bella in sé, ma gli storici me l’hanno complicata. Sarebbe stato meglio se avessi potuto raccontare soltanto questo grande episodio. E invece ho dovuto lavorare per far tacere chi l’aveva voluto deformare. L’unico testimone oculare che poi ne ha scritto e di cui gli storici hanno tenuto conto: Silla, ripreso soprattutto da Plutarco. Ha sempre cercato di falsificare la storia, spostando il campo di battaglia duecento chilometri a est, vicino a Verona. Il tutto per oscurare l’importanza di Mario, vero protagonista di questa vittoria che, dal punto di vista militare, per Roma fu ancora più strategica di quella, tanto celebrata, contro Annibale e i Cartaginesi. Un fatto reale è stato rimpicciolito per ragioni politiche, perché non si desse troppo lustro a Caio Mario. Peggio. Nel trionfo gli si mette a fianco uno che non c’entrava nulla, quel Lutazio Catulo che invece era fuggito».
Com’è arrivato a questo libro? «Già sui libri di scuola questo termine m’incuriosiva, “Campi Raudii”: era un modo per indicare un non luogo, allora si voleva dire che la civiltà finiva con la Lombardia e il Ticino. Nella mia lunga vicenda professionale ho raccontato le storie d’Italia, dal Veneto alla Sicilia. E la più grande era qui, sotto il mio naso».
Lei scrive che negli avvenimenti narrati c’è la chiave per capire il presente. In che senso? «La cosa triste è che, già ventun secoli fa, c’era il revisionismo. Gli esseri umani hanno sempre cercato di falsare ogni cosa a proprio favore, ma, e questa è la buona notizia, non ci sono riusciti del tutto. Anche se le balle raccontate da Silla hanno influenzato gli storici, non sono riuscite a nascondere la verità. I Campi Raudii non erano in Veneto, ma qui. Il vincitore era Mario, non quel damerino di Catulo. Altra scoperta ancora valida: i grandi eventi come questa battaglia, diventano poi dei buoni affari di cui tutti profittano. Dopo la sconfitta dei Cimbri, Lucio Apuleio Saturnino, un tribuno fedele a Mario, anche per indennizzare le perdite della guerra, riuscì a far approvare la legge agraria da cui nacque il Piemonte. Questi morti dovevano pur rendere qualcosa, e uno dei latifondisti che ne approfittò fu un nipote di Silla».
Il protagonista è Tasgezio, il celta, il fabbro che dal suo villaggio sotto il “Monte Ros” aspetta paziente che la tempesta passi, e intuisce che, dopo la battaglia, la bonifica porterà il progresso e la fine del mondo conosciuto. Perché si è messo nei suoi panni? «Ancora per riparare alla nostra poca memoria. Noi tutti, pur con le successive mescolanze, siamo in qualche modo discendenti dai Celti. C’è stata poi una corsa a romanizzare i nomi. A dimenticare le origini. I Celti sono stati cancellati in modo silenzioso. Il mio è un piccolo riscatto, mi piaceva pensare che qualcosa restasse, come un barlume di memoria dentro il terreno. Almeno nei nomi: quello del Monte Rosa, per esempio, non viene dai Walser, arrivati alla fine del Medioevo. La parola ha una radice celtica, non germanica».
In questo romanzo Vassalli ha dato via libera a ciò che, da sempre, è il presupposto della sua scrittura, e cioè che la Storia sia racconto. Descrive le difficoltà dei Romani, chiusi nei loro accampamenti, a recuperare il cibo per mantenere in forze settantamila soldati. Parla con sicurezza della “placenta”, la focaccia di cui le legioni romane non erano mai prive; descrive i piccoli gamberi d’acqua dolce di cui abbondavano i ruscelli e che diedero un contributo fondamentale alla vittoria di Mario e quindi anche a noi. «Ne sono sicuro», dice.
Lo scrittore procede con un occhio al 101 a.C. e l’altro rivolto al presente. «È stato difficile rappresentare i luoghi com’erano ventun secoli fa, ora che la pianura è diventata un tavolo di biliardo. Ma l’uomo non è cambiato granché. Allora aveva il soprannaturale, ora ha il computer e la tecnologia. Potessimo prendere uno di allora e metterlo nel presente, dopo un mese userebbe auto e telefonino. Allora c’era questo grande capo dei Cimbri, Boiorige, come scrive Plutarco, ferox iuvenis, che non vede alternativa allo scontro, un pazzo che porta alla rovina il suo popolo e che è una cifra ricorrente della cultura tedesca. Basti pensare a quell’altro ferox che si presentò poco più di settanta anni fa».
Il romanzo invita a una nuova armonia europea. In che senso? «Se mi guardo attorno, io la sento sulla pelle questa decadenza della realtà che chiamiamo Europa, questo pezzetto del continente che ha rappresentato un fatto unico nella vicenda umana. L’ultimo momento felice è stato un secolo fa. Poi un tunnel di guerre, ideologie folli e sfacelo; da locomotiva non abbiamo più nemmeno la dignità di vagone. La mia speranza è che questa piccola orchestra si accordi di nuovo, ma senza direttori, per favore. Se si superassero questi ventun secoli di guerre e odi, saremmo felici. Fino a quando ci massacravamo, era un segno di energia, ora non ne abbiamo più. Parlo così per malinconia, perché uno che racconta storie è malinconico».
Il resto della conversazione porta a galla carattere, altri amori e convinzioni di Sebastiano Vassalli. Riconosce di vivere in isolamento, ma a contare è la lingua che si abita, non il luogo. Si attribuisce quanto evidentemente non pensa gli sia ancora stato riconosciuto, e cioè che, a partire dalla Chimera e proseguendo, con romanzi come La notte della cometa o Marco e Mattio e Il cigno, saggi e inchieste, da Gli italiani sono gli altri a Sangue e suolo, ha raccontato quasi tutta l’Italia, dal Piemonte alla Sicilia. «Ho cominciato a 40 anni a fare lo scrittore per davvero, ma poi ho descritto esclusivamente questo Paese e il carattere degli italiani. Sono sempre state le storie a venirmi a trovare».
Con un sorriso aggiunge... «Anche la prossima. È arrivata. Si svolgerà a Napoli. E sarà un altro viaggio nel tempo, l’unico viaggio rimasto per avere delle avventure».

Una vita solitaria. Vassalli non vuole che si abbia l’immagine dello scrittore ritirato dal mondo: «Mi creda, il mondo viene a rompermi i coglioni a domicilio». E nemmeno si può insistere sul benefico silenzio della sua casa: «Ma no, è soltanto un piccolo agio che mi sono ritagliato».
Non può negare, ed è una delle fonti di piacere della lettura di Terre selvagge, il colloquio con un ambiente, una natura perduti.
«Lo scrittore deve superare l’orizzonte umano. C’è una pagina di Nietzsche: ciò che è umano alla fine può dare la nausea. Noi purtroppo non abbiamo interlocutori nell’universo. Peccato, saremmo migliori; ci aiuterebbero. Invece ce la cantiamo e suoniamo da soli».
Un paio d’ore prima, a cinque chilometri da casa sua, ero entrato nel bar sulla piazza di Biandrate. Chiedevo indicazioni per individuare il puntino di spazio dove abita lo scrittore. «Ah, Vassalli», mi fa il classico giocatore di scopa. «Quello non esce mai». Mentre ascoltavo e il barista cinese preparava il caffè, pensavo al romanzo, osservando questa piana amorfa, «dove ci sono state invasioni, sommosse, guerre (...) dove l’opera dell’uomo ha modificato il paesaggio e perfino il clima e tutto è avvenuto in una sorta di smemoratezza, senza nessuno, o quasi, che lo raccontasse», come dice Vassalli nell’autobiografia sotto forma d’intervista, Un nulla pieno di storie, scritta con Giovanni Tesio.
Ecco, quel “quasi” esiste, e ha scritto un gran bel libro per creare una memoria più giusta, restituendo a questo paesaggio la vitalità perduta.