Francesco Merlo, Gq aprile 2014, 11 aprile 2014
A PRANZO CON ROBERTO D’AGOSTINO
«Davvero ti sembro quello che ha rovinato l’Italia?». Dago va in chiesa con i labrador: «Mai a messa». A pregare? «A pensare». In ginocchio? «Io seduto e loro accucciati». La nera, Zen, è la madre. E la figlia bianca si chiama Pink quando è buona, e Punk quando è cattiva. «Ma non è mai cattiva». Il prete è un cinofilo? «Ci conosce ed è contento». E quando Zen abbaia? «Non è mai successo».
I due labrador nella Basilica di Sant’Agostino sono un altro modo di essere Cafonal, che in fondo è il fuori posto, il catalogo dell’aho! e del famolo strano. L’adagio dice "sfortunato come un cane in chiesa" ma anche "fortunato come un cane in chiesa". Sicuramente Zen e Pink, che avanzano dondolando tra Raffaello e Caravaggio, sono contaminazione: «L’idea di mischiare la volgarità con l’eccellenza per migliorarle entrambe divertendosi, l’alto e il basso insieme. Roma è così».
E però, nel suo attico a tre piani, che è l’ottavo colle, aggredito dalla famosa collezione di orrori e meraviglie, all’inizio vedo solo la volgarità delle vulve e dei peni in erezioni. «Quello è l’orinatoio dei Rolling Stones», mi dice e io annuisco facendo finta di sapere che è contaminazione, e dunque arte. Racconta di avere mostrato e spiegato Roma al napoletano Sorrentino: «L’ho portato alle feste, l’ho fatto entrare nelle case. Ma non l’ha capita. E non l’aveva capita neppure Fellini».
Non è solo Paolo Sorrentino che ha fatto di Dago il suo Virgilio nella Roma divina, quella di "A stronzi, ndo’ state? Ndo’ annate?", la capitale di Coattonia. D’Agostino sa di essere il Papa dell’immensamente trucido, il poeta del me rimbarza: «Da anni le interviste che mi fanno sono tutte uguali».
Magari perché a tutti impone il suo passo di scettico entomologo della fogna-Italia: «L’intestino capitolino è lo spirito del tempo, uno stile di sguaiataggine sublime. L’impresentabile è diventato protagonista, il tamarro della borgata ha conquistato il centro». Ma ormai alle feste non va quasi più: «La mia casa è talmente grande che mi capita di non uscire per giorni. E anche i viaggi mi interessano meno. Mi basta il centro di Roma. Sì, c’è la spazzatura, il degrado, ma io esco, mi infilo in una chiesa qualsiasi ed è una delle più belle del mondo». Ecco cos’è la contaminazione.
Dice: «Ammetto che c’è la volgarità. Ma su Dagospia trovi la scrittura, la pittura, la fotografia, l’architettura». È vero: solo su Dagospia ho visto le foto della Binh Thanh House in Vietnam, del liceo Braamcamp Freire di Lisbona, del centro commerciale di Daniel Libeskind a Brünnen. E leggo le recensioni di Marco Giusti che stanno lì come «poveri versi miei gettati al vento».
Seguendo la mano sulla quale ha tatuati i nomi della moglie e del figlio distinguo l’arte: «Vedi quella Moira Orfei fatta con i cioccolatini? È di Aldo Mondino». Ci vuole un occhio speciale per saltare scheletri, vampiri, vecchi flipper, orologi a cucù che cantano Elvis, bambole fetish, nani da giardino, e mettere a fuoco la New Religion di Damien Hisrt che «non è il Caravaggio che ammutolisce anche i cani in Chiesa», ma «sicuramente è l’artista più osannato». E controverso, aggiungo: un po’ come te? «Ci sono bacchettoni che si fanno vanto di non collegarsi mai con Dagospia: sono la mia vera forza». Ti sponsorizzano come un libro all’indice? «Sì. E mentono. Sono quelli che, se non li ripubblico io, non li legge nessuno». Per essere ripubblicati da te basta infilarci insulti e nomignoli. «So che non ti piacciono». Mi piacciono quando riescono a catturare l’anima, come faceva Fortebraccio. «Beh, alcuni ci riescono: Santadeché, Luca di Monteprezzemolo, Pierfurby, Aledanno, Sergio Marpionne, Colao Meravigliao, lo Scarparo, Il Movimento cinque stalle...».
Ammetto, ma ne è venuto fuori un genere, anzi un degenere. E hai reso popolare il gossip-minaccia: “Chi è quel manager che ha lasciato la moglie per un ragazzo nero?”. «Davvero ti sembro il gran furfante che si dissipa nel web?». Hai troppi allievi. «Ho molti maestri, ma non ho allievi». Allievi inconsapevoli che non hanno il tuo disincanto, solo la violenza . Alla fine concordiamo: «Senza l’irresponsabilità goliardica viene profanata la sovranità del riso».
A tavola nonostante i cappelletti, la gallina e i cannolicchi c’è ancora diffidenza. Meno male che c’è la moglie Anna, il suo vero editore, e non solo perché è una Federici, dunque ricca di famiglia. Gli vuole bene, ma è esperta d’arte e non sempre lo spalleggia: «Io toglierei quegli oggetti, ma solo quelli», dice dandomi, a sorpresa, ragione. E c’è il figlio Rocco, che è un bel giovane timido e intelligente, adesso studia a Londra e la sua stanza addolcisce lo stile, spariscono magnetismo e santità, esoterismo e occultismo.
È una bellissima famiglia: affetti, sguardi, solidarietà. E qui c’è più da vedere che da ascoltare, più da raccontare che da riferire. Riesco (quasi) ad evitare le solite domande sugli informatori segreti, da Cossiga a Bisignani, e “dicci chi è il più volgare?” e “chi comanda in Italia?”. Ma arriva il momento dei tatuaggi, quando gli chiedo di togliersi la camicia e allora viene fuori che la sua pelle somiglia alla sua casa e tutti a fare "oooh!" di meraviglia.
È così che diventiamo tanti Dagospia: «Aho! So’ D’Agostino, cciò il look estremo de Roma in disfacimento eterno, so’ er coatto raffinato der web pettegolo: semino zizzania e faccio er cane ‘n chiesa».
Mi racconta che il suo sito-fenomeno, l’unico che ce l’ha fatta senza il gran nome di carta (Repubblica, Corriere...), «adesso è in attivo e ho fatto un’assunzione, ora i redattori sono quattro». Quanto lavori? «Sempre, appollaiato in questa torretta. Si vede che qui Anna non ci mette mano, ti piace?, è un delirio». Ora parliamo di quella volta che «una brutta pleurite non curata...». Ma ce l’ha fatta. «È allora che sono cominciati i tatuaggi». Preghiere? «Ex voto. Guarda, la casa è piena di croci, c’è pure un Batman in croce. Sai, l’inventore dei supereroi era un ebreo ed è convincente la teoria che vede in Superman l’invidia del Cristo».
Attorno c’è una parodia (consapevole) del misticismo dannunziano. Poi mi mostra le grandi statue in terrazza: «Mao che saluta il cupolone, Berlusconi dorato». E sfogliamo i libri che ha scritto, con Federico Zeri, con Arbore... Cominciò con Lotta Continua, poi l’Europeo, Panorama, l’Espresso, «Renzo Arbore mi trasformò in lukkologo e tuttologo». Alberto Ronchey prendeva in giro i giornalisti così: «Scusi lei è tuttologo?». Risposta: «Anche».
La storia di D’Agostino è la nostra storia: «Il mio ’68 è stata la musica», che è il suo talento originario. Ha una scrittura speciale, ricca e contundente, che dilata il linguaggio. Una volta era selettivo, ora parla male di (quasi) tutti, me compreso: «Ma non voglio male a nessuno». Neppure a Della Valle? «Affittò un aereo con lo striscione “Dago-strunz”». Anche lui è tuo allievo. «Ma no, è il mio contrario. Arrivò a posteggiare sotto casa mia un pulmino con scritte contro di me, si fermavano le persone, si indignavano gli amici, la famiglia. È riuscito a farmi arrabbiare».
Tutti, dice, «si prendono sul serio», tranne Dagospia che è come questa casa, la trasgressione creativa del coatto, «qui Er Trippa, er Piotta, Er Conte ed Er Monnezza maneggiano il rasoio di Breton e alla Gioconda non mettono i baffi, ma uno ‘sti cazzi e un se magna».
E però questo D’Agostino è uno straordinario talento, un grande italiano... Ecco, stavo per scrivere, andato a male. Ma quando esco vorrei pure scrivere che mi piace. Pensate che svolta se ascoltasse sino in fondo la bella moglie e si (ci) liberasse della volgarità come ci si libera di un’ossessione.