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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

LE RAGAZZE UCRAINE CHE SALVANO GLI ULTIMI SAMARITANI


«Dicevano in molti che saremmo spariti, estinti per sempre dopo 3.700 anni di storia. Ma noi, il vero popolo eletto, i veri figli di Israele, siamo ancora qui. La comunità è tornata a crescere e continuerà a farlo. Anche grazie a quelle ragazze». Khader Radwan è un fiume in piena quando parla della sua gente, che gli ebrei considerano una setta dissidente o perfino eretica e gli accademici definiscono gruppo etno-religioso: sono i samaritani, di cui tutti conoscono il nome per la parabola nel Vangelo di Luca – una conferma come ai tempi di Cristo fossero disprezzati – ma poco o nulla di più. E non solo perché israeliani e palestinesi sono in assoluto primo piano in questa terra e perché la loro comunità è da tempo pacifica e quindi “non fa notizia”. Soprattutto perché il loro numero è davvero ridotto, nonostante “quelle ragazze” arrivate dalla verde Ucraina nell’infuocato Medio Oriente. Accolte, più precisamente, nel villaggio di Kiryat Luza, sul monte Gerizim che domina la città palestinese di Nablus, in Cisgiordania.
«È qui che viviamo noi discendenti delle tribù di Efraim e Manasse, degli israeliti che ai tempi della deportazione degli ebrei a Babilonia restarono nel Regno del Nord, custodi della vera fede e del vero tempio sulla montagna sacra di Gerizim dove vissero Adamo ed Eva, dove Abramo portò Isacco per il sacrificio e i figli di Israele costruirono il primo altare della loro storia. Il tempio di Gerusalemme per noi non significa nulla. In epoca romana eravamo un milione e mezzo, poi siamo diventati sempre meno fino a scendere a 122 nel 1916. Ma ora siamo 750, qui a Kiryat Luza e a Holon, vicino a Tel Aviv», continua Radwan, 55 anni, uno dei portavoce della comunità, uomo d’affari ed esperto di divinazione. Un’arte, quella di predire il futuro, per cui i samaritani sono noti e interpellati a caro prezzo (anche mille euro a consulto), ricercati da ogni parte del mondo perfino via Internet.

Un aiuto ai “bisognosi”. Proprio Internet sta aiutando a risolvere un problema cruciale: il calo delle nascite dovuto alla carenza di ragazze da marito (una ogni due uomini), nonostante le feroci persecuzioni e le conseguenti conversioni di massa si siano fermate. E nonostante un recente programma di test genetici abbia molto ridotto l’alta mortalità dei neonati e le numerose nascite di bambini disabili, inevitabili in un gruppo così chiuso dove per tradizione ci si sposa tra cugini primi. Con contatti creati sui siti, e con le relazioni personali di molti di loro, mercanti e viaggiatori, i samaritani hanno aperto ufficialmente, per la prima volta, ai matrimoni misti, iniziati in sordina e con qualche contrasto una quarantina d’anni fa, soprattutto con ebree. Una decina di samaritane si è inoltre sposata fuori dalla comunità: scomunicate, la loro partenza ha acuito la crisi. «È per questo che nel 2004 il nostro sommo sacerdote emise una fatwa che consentiva le nozze con ragazze dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale. Perché proprio quei Paesi? Perché sono poveri, mentre noi siamo benestanti ed è giusto aiutarli», dice Radwan. E alla constatazione che al mondo ci sono nazioni ancora più misere, risponde sorridendo: «Ma le donne di quei posti sono belle: la bellezza vuole la bellezza».
Non ne sono arrivate tantissime di spose bionde, cinque per ora a Kiryat Luza, qualcuna a Holon. La veterana è Alexandra Kraskuk, 28enne della campagna ucraina. «Mi sono trasferita qui dieci anni fa, non avevo mai sentito parlare dei samaritani e quando quell’uomo che ora è mio marito si è presentato alla porta di casa credevo fosse un ebreo», ci racconta su una panchina di Kiryat Luza, davanti alla sua bella casa di pietra chiara. «Sono molto contenta, qui sono tutti accoglienti e gentili, decisamente meglio degli uomini del mio Paese e degli israeliani», continua mentre osserva il figlio Eliazar di tre anni che gioca con un altro bimbo dall’aria vagamente straniera («È della mia amica Alla, anche lei è ucraina», spiega).
All’inizio la famiglia di Alexandra, che ora si chiama Shura Altif, non aveva gradito quel pretendente straniero, più vecchio di lei di 22 anni, che l’aveva scelta in un’agenzia matrimoniale israeliana guardando le foto online. Ma poi l’aveva accettato, per la sua gentilezza e perché poteva offrire alla figlia una vita agiata.
Nemmeno per lei è stato facile cambiare vita così radicalmente. «Quando mi sono trasferita qui tutto era strano, non parlavo l’arabo come loro, né l’ebraico che tutti conoscono, mi serviva un interprete. Ogni cosa era nuova e diversa. Rispettando la regola, prima di convertirmi ho passato sei mesi per imparare le tradizioni, per studiare la religione e le sue norme. Che sono molto severe, soprattutto per noi donne». Come la settimana di isolamento nel periodo mestruale, quando sono vietati i contatti con tutti, famiglia compresa, e durante la quale se l’“impura” tocca un oggetto questo deve essere lavato prima che contamini un membro della famiglia. Isolamento che diventa di 40 giorni dopo la nascita di un maschio, di 80 giorni di una bambina, e lo stesso vale in caso di aborto. Per shabbat poi, al tempio vanno solo gli uomini, le donne restano a casa. Norme e rituali antichi, prescritti infatti dal Levitico.

Pilastri della fede. La religione dei samaritani ha molto in comune con quella ebraica, ma considera quest’ultima contaminata da riti ed elementi importati dall’esilio babilonese. «L’autentica Torah è la nostra, scritta su una pelle di montone 3.639 anni fa dal nipote di Mosè dopo la morte del profeta, a cui Dio l’aveva rivelata. È il Pentateuco, ovvero i soli cinque primi libri della Torah degli ebrei di Giudea, e anche in questi ci sono varie differenze. È il libro più antico del mondo, lo conserviamo ancora qui», dice Ibdur Asher, moglie del Kohen Gadol, il sommo sacerdote che al momento non è nel villaggio. Birkenstock ai piedi, gonna al ginocchio e golfino rosa a maniche corte, questa signora 70enne ha poco di conservatore all’apparenza. E si rivela infatti aperta, dicendosi «convinta che le ragazze ucraine faranno del bene alla comunità, tutti preferirebbero sposare una delle nostre donne ma questa è l’unica soluzione e dobbiamo accettarla con serenità».
Subito vuole però tornare alla storia del suo popolo, raccontando infine che «i nostri sacerdoti, mio marito, sono della tribù di Levi, discendenti dei primi figli di Israele che fuggiti dall’Egitto arrivarono nella terra di Canaan e si fermarono qui sul monte Gerizim dove ebbe inizio tutto». E sulla cui sommità, tra antiche rovine romane, bizantine e islamiche, si compiono ancora i riti più importanti a partire dalla Pasqua, celebrata con il sacrificio di decine di agnelli e una liturgia immutata da secoli. Poi invita a visitare la sinagoga dove un giovane prete (kahin, dall’aramaico, la stessa radice dell’ebraico kohen o cohen) ci fa entrare: una stanza spoglia con tappeti per terra, che non sembra certo una sinagoga ma ricorda una sobria moschea.
«Ci sono altre analogie con l’Islam, per esempio preghiamo inginocchiandoci come i musulmani e non seduti come gli ebrei, due volte al giorno ovvero all’alba e al tramonto, e prima osserviamo la purificazione rituale, lo hudu, simile a quello prescritto nel Corano», spiega. Sempre come l’Islam i samaritani hanno cinque “pilastri della fede”: l’unicità di Dio è l’unico in comune con i musulmani, gli altri sanciscono Mosè come profeta, il credo nella Torah (ovvero nel Pentateuco di Mosè) e nel giorno del giudizio, la santità di Gerizim. «Ma abbiamo molte più analogie con l’ebraismo naturalmente», continua il kahin. «In fondo tutte le religioni semitiche sono nate in questa regione, anche l’aramaico della nostra liturgia sopravvive nelle altre fedi abramitiche».

Doppia cittadinanza. Le contaminazioni e le somiglianze con i due popoli tra cui vivono vanno al di là della religione: tutti i samaritani per esempio hanno due nomi, uno ebraico e l’altro arabo. O un mix di entrambi, come Jamil (in arabo “bello”) Cohen, il 40enne proprietario dell’unico negozio di alcol della zona di Nablus. «Abbiamo doppia cittadinanza, israeliana e palestinese, e cerchiamo di non schierarci politicamente e vivere in pace con i nostri vicini», dice Cohen tra gli scaffali di whiskey e di vino. «Non è facile, molti soprattutto tra i coloni ebrei qui intorno non ci amano affatto. E poi la pace in questa terra non è ancora arrivata, fino agli Anni 80 la comunità abitava in gran parte in città, a Nablus. Ma la prima Intifada ci ha convinti a tornare sulla nostra montagna sacra. Una scelta che nessuno rimpiange».