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 2014  aprile 11 Venerdì calendario

LA SOVRANITÀ IMPOSSIBILE DEI NUOVI NAZIONALISTI


Il paradosso anti-europeo è la ricerca di una sovranità nazionale che si ritiene smarrita. Una nostalgia che etimologicamente è sofferenza e bisogno del ritorno, e che in lingua tedesca è Heimweh, il dolore di chi ricerca la propria casa. Quella "malattia svizzera", così la chiamavano gli psicologi, che in una vecchia canzone popolare riguardava i soldati disorientati nella marcia verso Strasburgo, un tempo teatro di battaglie e morte e oggi invece città del dialogo, sede di un Parlamento comune europeo. Gli iconoclasti orfani del sovrano desiderano ritrovare il controllo in casa propria, reinserirsi nella "prosa del mondo" così come la idealizzano. Il loro dolore e bisogno di orientamento vanno rispettati, ma chiudono la porta di una casa senza tetto. Esiste oggi una relazione tra apertura economica e benessere. Più cresce l’interdipendenza più crescono le difficoltà delle democrazie nazionali. Più i governi si spaventano e frenano, più cresce il malessere. E più, nella pur giustificata critica al potere, i nostalgici vogliono arretrare anziché avanzare, finendo per privilegiare ciò che è nazionale su ciò che è democratico. Non è vera infatti la critica dei sociologi secondo la quale il sovrano benevolo invocato dai nostalgici, se mai c’è stato, non c’è più. La sovranità nazionale è solo nascosta dietro la critica all’Europa ed è pronta nuovamente a ingannare. Sei innocente quando sogni, cantava Tom Waits, anche se stai correndo tra i cimiteri. Ma al risveglio ti devi accorgere della realtà: la crisi finanziaria dell’euro ha la sua origine in quello che Nicolas Veron per primo ha chiamato "nazionalismo bancario". Di fronte all’abbattimento dei muri finanziari europei negli anni Novanta, i poteri nazionali - ancora sovrani in casa propria - hanno protetto le banche locali aiutandole a nascondere enormi rischi. Ne è scaturito un terremoto multiplo, di cui uno degli epicentri fu nel 2007 l’acquisizione e poi il crollo della banca olandese Abn-Amro da cui derivarono i problemi di Fortis, RBS e Monte dei Paschi. Il maggiore scandalo protetto dall’opacità dei controlli nazionali fu la tedesca Hypo-RE che in silenzio portò l’euro vicino al crollo già nel settembre 2008. Erano i canali di trasmissione tra poteri locali e denaro, tra ambizioni e gelosie nazionali, in un modello di economia sociale di mercato dove non c’era molto di mercato e ancor meno di sociale. Può essere la soluzione richiudere i confini dentro cui sono sovrani i poteri locali? O non è più sensato sottrarre ai potentati locali il monopolio del controllo, come sta faticosamente avvenendo cinque anni dopo la crisi. Quanto alla sovranità monetaria, non è andata anch’essa perduta con l’euro? Certo quella di svalutare, ma come ricorda Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro sulle "false verità", prima dell’euro le banche centrali erano costrette a seguire di pochi minuti ogni decisione della Bundesbank. All’interno di un’area integrata il ruolo predominante era esercitato dall’economia più grande e dalla moneta più stabile. L’alternativa era dunque dis-integrare l’Europa o costruirla insieme. Ma è sovranità monetaria anche determinare l’inflazione nel proprio paese. E qui l’Italia ha preservato la sua perversa prerogativa nazionale dopo l’euro, privilegiando le rendite e facendo crescere i prezzi più che nei paesi vicini. Per poi compensare l’inflazione dei più protetti abusando di uno strato sempre più largo di precari privi di voce. In modo diverso, da decenni ogni governo ha identificato "vittime silenziose" su cui scaricare i costi sociali della globalizzazione. La Spagna ha seguito lo stesso metodo italiano. La Francia ha accumulato debiti per le generazioni future. Germania e Olanda hanno portetto banche fallimentari gonfiate dai rendimenti dei debiti altrui. Irlanda, Austria e Lussemburgo hanno mimetizzato paradisi fiscali o regolatori. La Grecia ha falsificato i conti. È lo sporco segreto della sovranità: scaricare su chi non può protestare e spesso nemmeno votare. Si ripete fin dai tempi feudali, così come avviene tuttora nascondendo nel lontano futuro la miseria pensionistica dei giovani. Scelte interamente del sovrano nazionale, perchè i governi non hanno voluto trasferire competenze all’Europa su tali diritti. Ciò che inquieta è quanto poco sia cambiato dagli anni Settanta, la fase di minore cooperazione monetaria, quando di fronte alla stessa instabilità l’inflazione italiana era salita al 21%, ma quella tedesca solo al 7%. È questa continuità che testimonia il perdurante monopolio culturale nazionale. In questa luce era protestatario il pensiero dell’Europa, con spirito anarchico, strumenti liberali e finalità collettive. Un tentativo di riconciliazione e non di redenzione, ma sullo sfondo di ideologie socialiste o cristiane che incorporavano visioni del futuro e vocazioni universaliste. Cadute sotto il peso della storia, negli stessi anni di Maastricht, gli orizzonti politici rimasti sono il confine di casa e il presente: qui ed ora. L’idea di Europa è rimasta così sospesa da terra, o come si dice adesso, lontana dai cittadini. Ed è solo apparente il disordine italiano, in una cacofonia media-politica dominata dal "qui e ora", un metodo che è follia in cui ogni dire è ammesso e nel quale gli anti-euro si sono inseriti con naturalezza. È inquietante (anche se non del tutto convincente) che i paesi più in difficoltà, quelli che meno hanno saputo aggiustare l’economia alla sfida dell’euro, siano proprio quelli in cui è minore la trasparenza della vita pubblica, più basso il livello di scolarità, minore la libertà di stampa, maggiore la corruzione. Fraintendendo la quiete offerta inizialmente dall’ingresso nell’euro, dal ’98 in Italia il discorso pubblico si è distaccato dalla realtà circostante, si è chiuso attorno ai palazzi del potere e ai loro satrapi, ed è progressivamente degenerato. Fino, oggi, ad accostare gli elementi della chimica-sociale che Hannah Arendt denunciava prima della tragedia tedesca: chiusura, pessimismo collettivo, una latente aggressività di massa e la tendenza a incolpare gli stranieri per le difficoltà. Gli errori europei e gli anni perduti nella gestione della crisi sono fatti della stessa stoffa: sfiducia negli altri. L’Italia, per dimensione e storia, ha un ruolo speciale in questo sentimento riflessivo. Da trent’anni il tasso medio di crescita italiana sta declinando regolarmente rendendo problematico fidarsi di un paese con un debito troppo grande per essere salvato e per non trascinare il resto d’Europa nella propria instabilità. Dall’inizio della crisi, il reddito italiano si è contratto del 9%, la produzione industriale ha perso un quarto del potenziale gli investimenti si sono ridotti di quasi il 30%. Solamente la Grecia ha fatto peggio, ma dal prossimo anno crescerà a tassi doppi dell’Italia. Esiste nel quadro europeo una speciale malattia italiana. Per questo ricucire il tessuto logorato della fiducia europea e ottenere la giusta solidarietà dipende in gran parte dall’Italia. «Sta in noi», ripeteva Carlo Azeglio Ciampi fin dall’ingresso nell’euro. Tornare alla lira, osserva un recente manifesto promosso dalla Sep (Luiss), «non risolverebbe alcuno dei problemi italiani. Anzi li aggraverebbe e metterebbe a rischio l’integrità della costruzione europea». Da tempo tuttavia la nostalgia sta attecchendo e rende sconveniente difendere l’Europa in Italia. E come negarlo, dopo aver descritto giorno per giorno i gravi difetti, le soluzioni mancate, gli ultimatum e poi i compromessi sempre faticosi. Cresce però una propaganda tutt’altro che ingenua, che alimenta nell’opinione pubblica un sentimento di insofferenza per le complicate imperfezioni europee. Un sentimento di scoraggiamento che come quello di Weimar scarica aggressività oltre i confini. Due storici tedeschi, Sebastian Haffner e Klaus Hildebrand, riportarono un’identica immagine del giorno dopo la presa del potere di Hitler: «Si respirava per le strade di Berlino un senso di sollievo e quasi di euforia, non lo si può chiamare in altro modo, per essersi liberati dei gravami della democrazia e dei suoi difetti». Un sollievo destinato a durare ben poco.

Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 11/4/2014