Paolo Mauri, la Repubblica 11/4/2013, 11 aprile 2013
La scena potrebbe essere quella di un film: una macchina con due persone a bordo sta per infilare il cancello di una villa nei pressi di Firenze
La scena potrebbe essere quella di un film: una macchina con due persone a bordo sta per infilare il cancello di una villa nei pressi di Firenze. Si avvicinano due uomini in bicicletta e fanno cenno di voler parlare al passeggero che, per ascoltarli, abbassa il finestrino: è lei il professore? Alla risposta affermativa uno dei due gli scarica addosso sette colpi di pistola. Il professore è Giovanni Gentile, l’ideologo del fascismo, la villa quella del Salviatino dove il filosofo si è trasferito da quando Roma è diventata per lui pericolosa. E’ il 15 aprile del 1944, settant’anni fa. Gentile ha aderito alla Repubblica Sociale ed è stato nominato presidente dell’Accademia d’Italia. Inunarticolopubblicatodal Corriere della Sera il 28 dicembre del 1943, Gentile avanza una proposta di pacificazione tra gli italiani. L’articolo si intitola Resistere, ma un passo è molto esplicito: non bisogna interrompere la lotta «contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio». Parla dei partigiani anche senza nominarli esplicitamente e lo ribadisce in una successiva lettera al Corriere. Inquadriamo ora i due ciclisti: uno è Bruno Fanciullacci l’altro si chiama Giuseppe Martini, detto Paolo. Sono due gappisti (Gap vuol dire Gruppo armato patriottico). C’era anche Antonio Ignesti: doveva sparare lui, ma qualcuno lo aveva riconosciuto e dunque s’era messo in disparte. A sparare è stato il solo Martini, che vivrà ancora a lungo mentre Fanciullacci, arrestato e portato a villa Triste, dove il maggiore Carità insieme alle SS tortura i prigionieri, si lancerà dalla finestra il 15 luglio del ‘44. Perché i due gappisti volevano uccidere Gentile e chi aveva dato loro quest’ordine? Luciano Mecacci, studioso di psicologia e storico, ha passato e ripassato quel film alla moviola cercando di ricostruire ogni frammento di una vicenda in apparenza semplice e in realtà molto complessa, tant’è che la sua decifrazione alla quale si erano dedicati nel passato anche Luciano Canfora ( Lasentenza, Sellerio 1985 e 2005), Paolo Paoletti, Francesco Perfetti, lascia sempre qualchepuntoscoperto.Comunque La ghir-landa fiorentina di Mecacci (Adelphi) chiarisce parecchi dubbi, costruendo un racconto che è insieme un libro di storia e una sorta di puzzle in cui un numero infinito di voci cercano di far quadrare una difficile verità. Gentile, portato subito all’ospedale di Careggi, dove lavora il figlio medico Gaetano, non sopravvive all’agguato. Il fascicolo sulla morte del filosofo che dalla questura dovrebbe essere stato riversato all’Archivio di Stato, non si trova più e questo alimenta qualche sospetto. L’unico a sparare fu dunque Martini: una figura sfuggente, per molto tempo ignorata cui ora Mecacci ridà una biografia dettagliata. Ancora in anni recenti, raccontando dell’attentato allo storico Paoletti, Martini (che muore nel 1999) non vuole rivelare quello che accadde negli ultimi due minuti, tra l’uccisione del filosofo e la fuga. Nel 1984 lo scrittore e militante comunista Romano Bilenchi a una precisa domanda di Luciano Canfora risponde che non si saprà mai chi ha sparato davvero. L’uccisione di Gentile fu comunque rivendicata dai comunisti e deprecata, per la penna di Tristano Codignola, dagli azionisti. C’era stato, in risposta ai tentativi di pacificazione di Gentile, un articolo del latinista comunista Concetto Marchesi corretto da Girolamo Li Causi, che aveva trasformato un anatema in una esplicita condanna a morte. Tutto sembrerebbe semplice, anche se non si conoscono i nomi dei mandanti. Ma spunta un’altra pista di cui dà conto Mecacci. Il tenente Bindo Fiorentini, un ufficiale azionista che si era dato alla clandestinità, raccontò e ribadì anche in tempi molto recenti di essere stato avvicinato da un amico azionista che gli chiese di uccidere Gentile. Fiorentini si rifiutò dicendo che sarebbe stato un assassinio, ma accompagnò l’amico (di cui non volle mai fare il nome) a fare un sopralluogo al Salviatino, dove poi avvenne l’attentato. A complicare le cose ecco spuntare un nome divenuto poi celebre per altre vicende: quello di Licio Gelli. Gelli (nato nel ‘17) era un fascista di fede provata ma era riuscito ad avere appoggi anche dalla parte avversa, come dimostra un lasciapassare degli Alleati che gli consente libera circolazione. Secondo Gelli, intervistato da Mecacci, l’uccisione di Gentile era opera di un gappista esaltato, mentre l’autista non era un semplice autista, ma un appartenente ai servizi segreti fascisti. E qualche ombra c’è anche su di lui. Gentile aveva comunque lasciato scritto che in caso di morte violenta non voleva ci fossero rappresaglie e difatti non ci furono. Ci si limitò ad arrestare e a tenere in cella per diversi giorni alcuni professori universitari (tra cui anche il giurista Francesco Calasso, padre di Roberto e l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli). La testimonianza di Bindo Fiorentini apre un nuovo versante di indagine: e se tutta l’operazione avesse avuto il marchio dei servizi segreti britannici? Secondo Renzo De Felice, «la morte di Gentile fu preceduta da una sequenza di furibondi attacchi del colonnello Stevens da Radio Londra. Che l’idea sia venuta da fuori Italia? Benedetto Gentile, il figlio, fin da allora ha dato credito all’ipotesi che il delitto sia stato suggerito da Londra. Erano tempi in cui bastava una parolina ben detta…». Intanto il 10 aprile era stato prelevato Brunetto Fanelli, segretario di Gentile e suo factotum presso la casa editrice Sansoni che apparteneva al filosofo. La mattina del 15 poco prima di essere a sua volta colpito, Gentile seppe che Fanelli era stato fucilato. Luciano Mecacci, che dà credito all’ipotesi del coinvolgimento inglese, ha anche messo in luce la figura dello studioso Mario Manlio Rossi: proprio Gentile, che lo conosceva, aveva alluso in una lettera ai suoi (di Rossi) amici che ora lo potevano anche uccidere. L’indizio è labile, ma sta di fatto che Rossi qualcosa combinò con gli inglesi a Firenze e forse fu questo qualcosa a procurargli una cattedra in Scozia dove andò a sostituire l’italianista John Purves. Fu proprio Purves, quando era in Italia, ad annotare su un taccuino, da lui intitolato “Ghirlanda fiorentina” (da lì il titolo del libro di Mecacci) i nomi di molti intellettuali italiani, forse in vista di un loro utilizzo come possibile sponda dei servizi inglesi. Naturalmente di tutto ciò non rimane traccia concreta, né l’inimicizia tra Rossi ed Eugenio Garin prova più di tanto. Garin aveva commemorato Gentile poco dopo l’uccisione, ma pian piano si sarebbe spostato su posizioni comuniste. Mecacci ricostruisce molto bene le vicende di diversi ex amici di Gentile che al momento opportuno presero le distanze. Antonio Banfi, che aveva pregato Gentile di aiutarlo nella carriera universitaria, dopo la fine della guerra scriveva che la sua era una filosofia da bancarella. In realtà Gentile aveva aiutato molte persone e la loro ingratitudine si misurò a cominciare dai funerali dove le assenze erano forse più vistose delle presenze. Cesare Luporini, in una trasmissione radiofonica degli anni Ottanta dedicata a Garin, disse che forse c’era ancora qualcosa da sapere sull’uccisione di Gentile. Ma Gentile doveva essere giustiziato?.