Silvia Bencivelli, la Repubblica 11/4/2013, 11 aprile 2013
IRENE Kluger, irlandese, vedova di Jerzy Kluger, ebreo polacco amico del cuore di Giovanni Paolo II, deceduto nel 2011 e la cui storia è stata raccolta da Gianfranco Svidercoschi in “Il Papa e l’amico ebreo
IRENE Kluger, irlandese, vedova di Jerzy Kluger, ebreo polacco amico del cuore di Giovanni Paolo II, deceduto nel 2011 e la cui storia è stata raccolta da Gianfranco Svidercoschi in “Il Papa e l’amico ebreo. Storia di un’amicizia ritrovata” (Cairo e Lev), racconta: «Giovanni Paolo II era un santo. Aveva speso tutto se stesso per la Chiesa. La amava tanto da accettare per il bene di essa di non dimettersi nonostante la malattia lo facesse soffrire». Riservata, da sempre fedele al Papa polacco, Irene è una delle prime volte che si concede alla stampa. Vi aveva mai parlato della possibilità delle dimissioni? «Ce ne aveva parlato più volte. Diceva a Jerzy che aveva pensato alla possibilità di dimettersi ma che nello stesso tempo quella decisione per lui in quel momento (non avevamo assolutamente l’impressione che negasse la possibilità della rinuncia in quanto tale) non era giusta perché avrebbe danneggiato la Chiesa. O meglio, che quella decisione in quel momento storico sarebbe stata contro la Chiesa. Diceva anche che soffriva, perché non riusciva a parlare e nemmeno a pensare più come una volta. Diceva che non era facile per lui essere Papa in quelle condizioni perché le forze venivano sempre meno. Si sentiva quasi colpevole della malattia. Credo, comunque, che la sua decisione di rimanere alla guida della Chiesa la prese da solo, in dialogo con Dio e la Madonna, in preghiera, nella solitudine. Offriva a loro la sua situazione e andava avanti. È dalla preghiera solitaria e intensa che traeva la forza per prendere decisioni anche difficili. La preghiera per lui era un rapporto diretto, privilegiato, con la Madonna e con Dio». Cosa ricorda di quegli ultimi mesi? «Ricordo che quando Wojtyla ci incontrava il suo viso s’illuminava pur nelle difficoltà fisiche. Da ragazzino abitava vicino alla casa di mio marito, a Wadowice. Andava in casa di Jerzy ad ascoltare suo padre, avvocato molto conosciuto in Polonia, che suonava assieme a un piccolo gruppo di sei-sette persone. Amava la musica. Rimaneva ore ad ascoltare. Lì è nata un’amicizia unica con Jerzy che poi è durata una vita». Si dice che suo marito abbia fatto molto per distendere i rapporti della Chiesa cattolica con le com unità ebraiche. È così? «Jerzy conosceva il rabbino Toaf ma non frequentava la sinagoga di Roma, perché gli ebrei romani sono sefarditi mentre lui era askenazita. Però Wojtyla si confrontava molto con lui e diverse sue intuizioni e aperture verso gli ebrei credo gli nacquero nel cuore anche dall’amicizia con Jerzy che per Wojtyla era davvero come un fratello maggiore. Fin da piccolo Wojtyla ebbe rapporti col mondo ebraico. Ricordo che Jerzy mi raccontava spesso di quella volta nel 1936 in cui un giovanissimo Karol entrò con lui in sinagoga. Wilhelm Kluger, padre di mio marito, organizzò un concerto di un tenore nella locale sinagoga e invitò anche il giovane amico del figlio col suo papà». Dove incontravate Giovanni Paolo II? «Sempre a casa sua, nel palazzo apostolico, a pranzo o a cena. Oppure a volte anche a Castel Gandolfo. In Vaticano salivamo con un piccolo ascensore privato che portava direttamente nell’appartamento al terzo piano. Ci accoglieva spesso il suo segretario, Stanislaw Dziwisz, e poi arrivava Wojtyla, sempre sorridente. Con noi mangiava solo cibi polacchi. Faceva tante battute, scherzava. Per lui erano occasioni per riposare la mente, per rinvigorirsi ritornando ai ricordi dell’infanzia » . Quando nel 1978 Wojtyla venne eletto al soglio di Pietro cosa avete pensato? «Abbiamo provato una grande gioia. Mio marito era dal dentista quando ha sentito alla radio dell’elezione di Karol. È tornato a casa eccitatissimo. Sono stati attimi unici, irripetibili » . (p. r.)