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 2013  aprile 11 Giovedì calendario

QUANDO

nel 1958 De Gaulle, per porre fine all’instabilità politica della Francia, varò la sua riforma costituzionale, da parte della sinistra francese, cui si affiancò quella italiana, si gridò all’avvento del neobonapartismo e persino del fascismo. Sartre definì i sostenitori di De Gaulle «ranocchi in attesa di un re» e Mitterrand giurò che l’avrebbe cambiata. La costituzione fu approvata, entrò in vigore e nessuno vide avanzare il neobonapartismo- fascismo. Quanto a Mitterrand, si dimenticò della promessa e divenne presidente alla gollista con soddisfazione. Ora in Italia — il cui sistema politico fa acqua da tutte le parti e il cui processo legislativo si rimbalza dall’una all’altra Camera con effetti dilatori e negativi per ogni serio progetto riformatore — di fronte alle iniziative di cambiamento avanzate da Renzi e dal suo governo vi è chi agita lo spettro della “democrazia plebiscitaria”, cioè di una deriva autoritaria che sarebbe iscritta nei disegni del suddetto Renzi considerato come erede
di fatto del berlusconismo.
Il termine e il concetto di “democrazia plebiscitaria” sono legati, prima che a quello di chiunque altro, al nome di Max Weber e alla formulazione datane da lui, in chiave radicale, in un celebre articolo del 1919. La Germania gli appariva in condizioni di totale disastro, i partiti inetti, i conflitti sociali acuti, l’Assemblea nazionale non all’altezza dei compiti; e quindi egli invocò l’elezione di un Presidente del Reich «che poggi senz’altro sulla volontà dell’intero popolo, senza l’intervento di intermediari». Il Presidente — scriveva — «eletto dal popolo, capo dell’esecutivo, capo dell’apparato di controllo amministrativo e detentore di un veto sospensivo e della facoltà di sciogliere il parlamento, che abbia la facoltà di indire una consultazione popolare, è il palladio dell’autentica democrazia ». Questo dunque il volto della democrazia plebiscitaria. Ma vi è una qualche ragionevolezza nel pensare che Renzi operi seguendo le orme del Presidente del Reich di tipo weberiano? O che progetti una riforma delle istituzioni che ad esso si avvicini? Abolire il Senato doppione della Camera va nella direzione di sistemi istituzionali in vigore in
vari paesi dell’Unione europea che non sono andati incontro a derive autoritarie. Renzi ha sottoposto i suoi progetti di riforma alla direzione del suo partito e, solo dopo averne ricevuto il consenso, li ha presentati al Parlamento, cercando le intese con i partiti. Tutto ha fatto, salvo che «senza l’intervento di intermediari
».
Lecita naturalmente ogni critica, anzitutto di chi a quei progetti si oppone; ma alzare il tono sino a far aleggiare la minaccia della “democrazia plebiscitaria” proveniente dal supposto erede di Berlusconi (ma Renzi non
è un plutocrate, non il padrone di tv, giornali, case editrici, non dispone di corti principesche, non minaccia da capo del governo altri poteri dello Stato, ecc.) significa agitare le acque oltre i limiti, appunto, della ragionevolezza, cedere al vizio di una retorica politica incapace di persuadere. Vi è chi considera alla stregua di un ricatto da leader insofferente la dichiarazione di Renzi che, se il Parlamento non approvasse le riforme proposte, allora non resterebbe che andare alle urne e, per lui, tornarsene a casa. Credo che la cosa debba essere vista in modo diverso, come una positiva assunzione di responsabilità di un leader che non vuole essere l’uomo di quale che sia stagione e non persegue il potere per il potere. Su un aspetto si può fare un’obiezione. Renzi ha mostrato, alle primarie del Pd che lo avevano visto sconfitto, di saper perdere e ciò nondimeno di voler riprendere la battaglia in cui credeva. Ebbene, se anche perdesse la battaglia per le riforme, un leader che crede nelle motivazioni del suo agire al servizio del paese deve essere capace di perdere magari ancora, di riprendere la sfida per il consenso, e non ritirarsi a fare il Cincinnato.
I gruppi parlamentari del Pd sono chiamati a riflettere sugli effetti che provocherebbe la caduta del Renzi premier e segretario. Dopo avere impallinato Prodi, impallinare anche Renzi e portare il paese alle urne in uno stato di caos politico e istituzionale sarebbe la prova del nove di una vocazione autodistruttiva dal prezzo troppo salato. Oltre la siepe vi è soltanto il suicidio della politica nel suo insieme e l’apertura di un vaso di Pandora (già fin troppo aperto), che sarebbero il più agognato regalo offerto a chi punta sul tanto peggio tanto meglio.