Roberto Mania la Repubblica 11/4/2013, 11 aprile 2013
RIMINI
«Io non sono un informatico – dice non proprio scioltissimo Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, nell’usare il linguaggio dei social network – ma al presidente del Consiglio lancerei questo hashtag: #matteononstaresereno». Perché vanno bene gli 80 euro («io da sindacalista un aumento così non l’ho mai ottenuto», ammette) nelle buste paga dei lavoratori con redditi fino a 25 mila euro lordi, ma non basta: ci sono i pensionati che sono stati esclusi e i giovani precari che non arrivano a quella cifra. E non va bene affatto la liberalizzazione dei contratti a termine come il silenzio sulla politica industriale. Com’era ampiamente prevedibile il feeling tra Renzi e Landini si infrange alla prova dei provvedimenti concreti. «Tutti quei cambiamenti annunciati non li vedo e vedo il rischio che si continui con le scelte sbagliate del passato», ha detto il leader della Fiom nella sua lunga relazione con cui ha aperto il 26° congresso dei metalmeccanici Cgil. Insomma si salvano solo le detrazioni Irpef. «E noi questo Paese – ha aggiunto – lo vogliamo davvero cambiare». Ma il cuore della lunga relazione di Landini è stato l’attacco senza precedenti alla Cgil, all’accordo sulla rappresentanza sindacale che la Fiom non condivide e che cercherà di cambiare con i prossimi contratti. Un muro contro muro. Landini ha parlato di un congresso confederale falsato dal non rispetto, da parte della confederazione, delle regole; di una deriva autoritaria. Ha chiesto alla Cgil di Susanna Camusso «di accettare il confronto democratico vero». Poi ha condannato senza appello la concertazione: ha portato all’aumento dell’età pensionabile e al progressivo impoverimento dei redditi dei lavoratori. A Renzi ha chiesto una legge sulla rappresentanza sindacale per impedire che prevalga il “modello Fiat” bocciato dalla Corte costituzionale e pure dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Poi ha respinto il jobs act: «Noi in italiano diciamo che 46 tipologie contrattuali sono troppe. Il contratto unico è unico o è la 47°?». Domani qui a Rimini arriva Susanna Camusso. E si temono i fischi dei delegati.
DAL NOSTRO INVIATO
LAFIOMè un ibrido di sinistra. È un sindacato, un pre-partito, una vecchia organizzazione di massa, un movimento. Ma la Fiom è anche un brand del merchandising. A pochi passi dall’ingresso nella sala principale del Palacongressi di Rimini dove svolge il suo 26° congresso, con tutti gli antichi riti di un’assise novecentesca, c’è lo stand che vende le felpe, i cappellini, le t-shirt, gli orologi e i braccialettini con il marchio della Fiom. È la celebrazione dell’orgoglio fiommino, della sua diversità e
pure della sua anomalia. I proventi servono a finanziare l’attività sindacale, il core business: le trattative, le manifestazioni, gli scioperi.
La Fiom — ha scritto Gabriele Polo — è «un nome che odora di ferro e di ruggine». Qui ci sono i metalmeccanici della Cgil. Qui c’è un pezzo del lavoro industriale e della storia sindacale italiana. La stragrande maggioranza dei 760 delegati al congresso arriva dai posti di lavoro, perlopiù sono operai. La Fiom con i suoi 360 mila iscritti miscela tutto: la musica rap con l’Internazionale, Gino Strada con Don Luigi Ciotti, la politica con il sindacato. Un concentrato di ap-
parenti contraddizioni permanenti. Dice il “dissidente” Fernando Liuzzi, oggi pensionato, ospite al congresso dopo aver diretto per decenni l’ufficio stampa della Fiom e anche il mensile Meta: «La Fiom fischia i sindacalisti, come Palombella della Uilm e Farina della Fim-Cisl (è successo ieri durante i loro brevi interventi, ndr) epoiapplaudei sacerdoti come Don Ciotti e Gino Strada». La tesi è che la Fiom non faccia più parte della famiglia
dei sindacati italiani. Che sia tutta proiettata verso la politica, verso un traguardo indistinto. Ma se provi a chiederlo a qualche delegato, con zainetto nero d’ordinanza marchiato Fiom, la risposta è unanime: «Non è vero». Di certo, la forza di questa Fiom, ormai a un passo da una sorta di secessione leggera dalla casa madre della Cgil, è il suo leader, Maurizio Landini, cinquantenne emiliano che ha lanciato il guanto della sfida a Susanna Ca-
musso. Di fatto un duello per la leadership della Cgil. Landini è un capo post-ideologico, senza più tessere di partito, pragmatico, scaltro, astuto. Per questo piace anche al premier Matteo Renzi con cui condivide la contrarietà alla concertazione. E ieri nelle sue due ore e passa di relazione, per dirla proprio con Renzi, ha rottamato questa Cgil. Ha detto che dell’attuale sindacato «non c’è nulla da conservare ». Che l’80 per cento degli iscritti alla Cgil non ha partecipato alle assemblee congressuali e che l’esito del voto è stata un’operazione «truffaldina». Accuse pesantissime e applauditissime dalla platea, però. «Questa è la strada che porta la Fiom fuori dalla Cgil. Ed è la cosa migliore che può succedere», commenta sornione Giorgio Cremaschi, un tempo fiommino oggi il capo della piccola minoranza congressuale. Landini starebbe ancora nella maggioranza, ma è ormai chiaro che proprio qui a Rimini all’inizio di maggio al congresso della Cgil finirà per presentare un documento alternativo dopo aver parlato di «autoritarismo e mancanza di democrazia» nella sua organizzazione. Si andrà alla conta.
Landini, maglione dello stesso rosso dello sfondo del palco, firma gli autografi e le dediche sul suo ultimo libro (“Forza lavoro”). È convinto che senza un cambiamento radicale «il sindacato rischia di non contare più nulla». Un ripido declino. Che non può escludere la Fiom. «Fa parte del vecchio, certo», sostiene Giorgio Airaudo, già segretario dei metalmeccanici che pensò anche al “partito Fiom” e oggi parlamentare di Sel. «Ma ciò
che permette a Landini di essere credibile — aggiunge — è il fatto che in questi anni ha sempre mantenuto il rapporto con i lavoratori». È questa la diversità che i fiommini rivendicano. Dice Mirko Capacci delegato della Teckna Impianti, una piccola fabbrica di Signa, nel fiorentino: «Noi siamo parte della Cgil e non siamo in conflitto con la Cgil. La differenza è che noi in questi anni abbiamo rafforzato il rapporto con i lavoratori mentre la Cgil ha compiuto un percorso contrario». C’è un rimprovero all’eccessiva burocratizzazione della confederazione. Che ieri, mentre parlava Landini, si è presentata a delegazioni ristrette: della segreteria nazionale solo Nicola Nicolosi,
esponente peraltro della precedente minoranza congressuale. In prima fila Carla Cantone della potente federazione dei pensionati e Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato ed ex sindacalista Cgil. Nessun esponente del Pd renziano. C’è Nichi Vendola e pure Paolo Ferrero di Rifondazione comunista. Poi un po’ di vecchie glorie, da Fausto Bertinotti a Maurizio Zipponi. Sullo schermo scorrono le frasi di alcuni leader della Fiom. Anche quella di Bruno Buozzi del 1924: «Il programma della Fiom è rimanere noi stessi in mezzo a tutte
le tempeste».