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 2014  aprile 05 Sabato calendario

(NON) ESSERE NEYMAR


Neymar non sembra felice. Nelle migliaia di foto pubblicitarie che gli scattano indossa un sorriso ogni giorno più obliquo, e meno spensierato. Recita – come tutti – ma a differenza degli altri in qualche modo sembra chiedere aiuto. Sto affogando nel denaro, aiuto. Vorrei trovare la forza di rinunciare a un contratto, aiuto. Non so come dire a mio padre che ormai siamo a posto per dieci generazioni, aiuto. Il mattino dopo la vittoria nel Clasico – partita epica, da centellinare poltrendo a letto fino a mezzogiorno – Neymar si è svegliato presto per andare a posare per Vogue Brasil con Gisele Bündchen. A parte il fatto che la tipa è felicemente sposata con Tom Brady – un armadio a quattro ante e occhi azzurri, re del football americano – il tentativo dei siti di gossip (su Google a volte sembra non esserci altro) di accreditare un’attrazione, ovviamente fatale, è stato penoso. Ma Neymar si è da poco lasciato con la fidanzata Bruna, troppo ghiotta l’occasione per non sfruttarla. Poi il nostro eroe è tornato a casa e ha cominciato a postare su Facebook e Twitter le solite immagini di cosiddetta vita privata, che poi è finta come l’atteggiamento dei calciatori negli spogliatoi quando entra la telecamera. Ma Neymar, oltre agli 11 sponsor ufficiali, ha un contratto anche per i social. Deve mostrarsi. Deve condividere. Magari gli girano le scatole per via di Bruna, o perché Messi gliela passa poco e male, ma non può esternarlo. Non può devastare dalla rabbia il salotto della casa di Pedralbes – e sì che essere ricchi servirebbe proprio a questo – perché se poi ne resta traccia su Instagram che si fa? Neymar non è l’evoluzione di David Beckham. Neymar, oggi, è una replica di Justin Bieber.
L’ho visto nascere, in un certo senso. Primavera 2009: tornato in patria dopo mille infortuni per chiudere la carriera al Corinthians, Ronaldo gioca una delle prime partite contro il Santos, e i giornali di San Paolo presentano il match come una sfida tra l’anziano e usurato Fenomeno e il suo erede, un ragazzino di nome Neymar. Niente è più inflazionato nel calcio del concetto di erede; prima che emergesse Messi – quello legittimo – a Maradona ne avranno appioppati dieci, ovviamente falsi. Neymar, un 17enne tremante per l’emozione, rimane molto ai margini di quella partita, giocata allo stadio Pacaembu e conclusa da una battaglia di inaudita violenza tra tifosi e polizia: poco prima di venire sostituito, però, forse intuendo che la sua prima grande occasione sta sgocciolando nel nulla, estrae dal bagaglio un paio di giocate di vuoti (finte) e di pieni (tocchi) da grande architetto visionario. A fine gara Ronaldo – vecchio furbacchione – lo cerca per farsi fotografare assieme, e Neymar quasi sviene dalla sorpresa. Ride di un nervosismo allegro e sincero, nulla di posato, nulla di indossato: ecco, quel giorno sì che era felice.
Poi è diventato un’infernale macchina da soldi. Bel faccino, belle movenze, bei gol e un appuntamento col destino. Non capiremo nulla di Neymar se non focalizziamo prima il contesto nel quale è cresciuto: non è soltanto un giovane campione in procinto di guidare il Brasile al Mondiale (e già non sarebbe poco). No, Neymar è il giovane campione in procinto di guidare il Brasile al suo Mondiale, quello casalingo, 64 anni dopo l’unico precedente, conclusosi col disastro del Maracanazo. Nella linea dinastica dei pretendenti al trono del 2014, prima di lui veniva Alexandre Pato; come sappiamo, l’ex milanista si è letteralmente dissolto lasciando strada libera al cadetto. Neymar stavolta non ha tremato, marchiando a fuoco la Confederations Cup dell’anno scorso e guadagnando così la leadership della Seleção di Scolari; il problema è che missioni storiche di questa portata vengono pagate prima – gli sponsor, i social, una popolarità ossessiva e stordente – e quando arriva il momento di realizzarle è umano che qualche paura ti scavi nell’anima. Ti trattano come una rockstar, mentre tu vorresti privilegiare il fattore umano. Raccontano che il mese scorso Neymar abbia girato uno spot per la Volkswagen a Vilanova i la Geltrú, sobborgo marinaro di Barcellona, facendo impazzire i pubblicitari tedeschi che governavano il set. A differenza di Thomas Müller, che la settimana prima aveva interpretato la stessa scena nello stesso luogo in modo molto professionale (sic), e dunque evitando qualsiasi contatto con la gente del luogo, Neymar ha firmato autografi evitando che anche un solo ragazzino se ne andasse deluso.
Prigioniero di una ricchezza in continua e sfibrante moltiplicazione, Neymar ha poi sbagliato la scelta del luogo in cui passare l’ultimo anno di attesa: il Barcellona appartiene a Messi in modo così ferreo che quando lui non c’è nessuno può giocare al suo posto. Infortunato, Leo è sparito per due mesi, novembre e dicembre: la scelta tatticamente più logica sarebbe stata quella di spostare Neymar da sinistra al centro. Ma se poi avesse funzionato? Meglio non rischiare.
La polemica sulle vere cifre del suo trasferimento, che non l’ha aiutato nello spogliatoio, è stata la botta finale. Neymar attende il Mondiale come una liberazione, perché non è facile abituarsi a ruolo e benefit da superstar ma recitare tutt’altra parte in campo. Nel frattempo parla attraverso le terribili intervistine confezionate dagli uffici stampa degli sponsor, e nelle quali racconta una vita di allenamenti, videogiochi, vestiti comodi e creme idratanti: nulla di pubblicabile, a meno di non volergli proprio male. Poi, a sera, si calca in testa un cappello sformato, indossa un paio di occhiali, tira su il bavero della giacca e va a spasso inosservato per Barcellona come i sultani delle fiabe: forse per sentire cosa dicono di lui, o per godersi una città che resta meravigliosa anche se hai il cuore angosciato, e non capisci bene perché. Il paradosso è in agguato, e prendetelo come tale senza indignarvi: non puoi provare che tenerezza, davanti a un ragazzino così tristemente ricco e famoso.