Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 10 Giovedì calendario

IL PIAVE MORMORAVA E FOTOGRAFAVA


All’inizio la fotografia fu bandita. Subito dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, le autorità vietarono non solo di scattare istantanee nella zona delle operazioni militari e nei territori adiacenti, ma addirittura di trasportare in quei luoghi apparecchi fotografici che non fossero stati debitamente sigillati. Ma era troppo pressante la domanda d’immagini sugli eventi del conflitto: una disposizione del genere non poteva reggere, come nota Luigi Tomassini nel suo saggio sull’argomento che compare sul nuovo numero degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa». Così fu il comando supremo ad ampliare enormemente i suoi reparti fotografici militari. Tre anni dopo, al momento della vittoria sull’Austria-Ungheria, i 23 operatori originari erano diventati 600 ed erano state realizzate oltre 150 mila riprese.
Il fascicolo degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa» è quasi integralmente dedicato alla Grande guerra, in occasione del centenario. La relativa sezione, curata da una specialista della materia come Giovanna Procacci, mette a fuoco vari aspetti dell’impatto che il conflitto ebbe in Italia: sulla cultura, sull’economia, sulla condizione operaia, sulla sanità, sull’associazionismo. E ci sono anche contributi specifici dedicati ai soldati e alle istituzioni militari. Tuttavia la parte forse più interessante riguarda le rappresentazioni dell’immane tragedia bellica diffuse all’epoca.
Tra i tanti mutamenti traumatici provocati dalla Grande guerra vi fu anche una vera e propria rivoluzione mediatica, resa possibile dai nuovi mezzi di comunicazione ed enfatizzata dalle esigenze della propaganda. Per tornare alla fotografia, essa negli anni dal 1915 al 1918 soppiantò largamente su giornali e periodici le tradizionali illustrazioni, tranne che nella rappresentazione dei combattimenti, riservata ancora in prevalenza alle matite di disegnatori come il famoso Achille Beltrame, l’artista che realizzava le copertine della «Domenica del Corriere».
D’altronde la produzione di foto, sottolinea Tomassini, «fu enormemente più ampia di quella che circolò sulla stampa», poiché le immagini in grande maggioranza ebbero una diffusione limitata, «spesso solo privata nel ristretto ambito familiare o delle relazioni personali dei loro autori». Nonostante la censura, era impossibile impedire ai combattenti d’immortalare le situazioni in cui si trovavano.
È quindi molto importante, per capire la realtà del conflitto e la memoria che ne è stata tramandata a livello popolare, l’iniziativa avviata dal portale Europeana per raccogliere e digitalizzare documenti e cimeli della Grande guerra forniti dai discendenti dei militari. Un lavoro nel quale è impegnato anche il «Corriere della Sera», che con il Collection Day del 18 maggio aprirà le porte per un giorno a chiunque voglia portare fotografie e memorie di quegli eventi, che saranno digitalizzate, restituite e poi pubblicate online.
Del resto, ricorda Tomassini, qualcosa del genere fu avviato già negli anni del conflitto. Basti pensare che sulla «Domenica del Corriere» comparvero ben 1.273 fotografie di caduti, fornite in genere dalle famiglie, anche se poi la rubrica si trasformò, forse su pressione delle autorità, e finì per ospitare soltanto i volti dei decorati, non necessariamente morti sul campo.
Inevitabilmente, come illustrano nei loro saggi Barbara Bracco e Fabio Todero, i giornali, i manifesti e le cartoline di guerra rispecchiano una visione del tutto edulcorata di quanto avveniva al fronte. I soldati italiani appaiono sempre attivi, raggianti: spesso il modello dei disegnatori sono i paladini dell’interventismo, primo fra tutti Gabriele d’Annunzio. Solo dopo la sconfitta di Caporetto vengono raffigurati militari feriti o addirittura mutilati, quasi a fare dei loro corpi menomati il simbolo dell’offesa subita dal territorio sacro della patria.
Quanto ai nemici, se ne dà un’immagine disumanizzata e demonizzante, con evidenti venature razziste, specie nei fumetti di guerra destinati a circolare nelle pubblicazioni di trincea, su cui si sofferma un contributo di Roberto Bianchi. Aberrazioni propagandistiche, ovviamente, anche se purtroppo l’asprezza del conflitto scatenò davvero le pulsioni più distruttive. Il bilancio degli abusi compiuti nelle zone occupate dopo Caporetto dalle truppe nemiche, soprattutto tedesche, ma anche austro-ungariche, non lascia dubbi. Secondo quanto riferisce nel suo saggio Daniele Ceschin, oltre ai saccheggi e alle distruzioni che portarono alla morte di circa 23 mila civili per inedia o mancanza di cure sanitarie, vi furono 553 uccisioni. Gli stupri denunciati, solitamente di gruppo, furono un migliaio, certamente molti meno di quelli realmente avvenuti: in una cinquantina di casi determinarono la morte della vittima o di chi aveva cercato di proteggerla.