Aldo Grasso, Corriere della Sera 10/04/2014, 10 aprile 2014
JOSÉ E LA VITTORIA QUEL DESIDERIO CHE LO RENDE UNICO
Josè Mourinho è il McLuhan dei nostri giorni, un grande della comunicazione. A differenza dello studioso canadese, lo Special One non è un teorico, meglio è uno che fa della pratica la sua teoria. Dopo il gol segnato da Demba Ba, l’esultanza e la corsa dell’allenatore verso il grappolo dei giocatori che festeggiavano la qualificazione è qualcosa che resterà nella bacheca dei grandi gesti comunicativi. Ai commentatori sportivi presenti allo Stamford Bridge, la corsa di Josè ha ricordato quella che fece nel 2004 all’Old Trafford, superando il Manchester United a un minuto dall’eliminazione negli ottavi di finale, andando poi a vincere il trofeo con il Porto. Ma l’altra sera c’era qualcosa di più. Nel dopopartita Mou si è schermito: «Sono corso lì per dare loro istruzioni, per dire a Torres chi e dove marcare, per chiedere a Ba di tornare indietro e difendere, per approfittare di quel momento in cui li avevo quasi tutti insieme, pronti ad ascoltarmi, e ammonirli che c’erano ancora 3 minuti di tempi regolamentari e 3 o 4 di supplementari. Il match non era finito e dovevano ancora lottare». Certo, parlava ai giocatori, parlava al pubblico, parlava ai media di tutto il mondo. Per dire cosa? Che lui è davvero il più speciale di tutti: discusso, controverso, anche antipatico ma vincente, capace di fare gruppo e imprimere una mentalità unica ai suoi giocatori. Da tutti, anche dai più scarsi, sa trarre il meglio: l’Inter ne sa qualcosa (pare persino che, nove mesi dopo il Triplete, si sia registrato fra i tifosi nerazzurri un incremento delle nascite; li chiamano «i figli di Mourinho»). Martedì sera, per vincere, e prima ancora per convincere i suoi, ha mandato in campo tutti gli attaccanti che aveva, fintamente incurante di ogni disposizione tattica. Ma è il McLuhan che è in lui che ci interessa. Oggi, chi non sa comunicare non è nessuno, è la legge dei tempi. Papa Francesco è un grande comunicatore, Obama è stato un grande comunicatore (adesso pare aver esaurito la carica innovativa), Putin, a suo modo, da machista, sa comunicare (l’Ucraina insegna), persino Matteo Renzi fonda tutta la sua carica di rottura sulla comunicazione. Sono almeno dieci anni che Mou è un leader totale, perché non comunica solo calcio. È un guru, un santone, un filosofo. In quanto tale, uno che vive di concetti, che ha trasformato le conferenze stampa in sue conferenze e la partita di calcio in un esempio virtuoso. Ma le sue vere lezioni non sono quelle che impartisce a voce; lì vince facile. Davanti a lui, i giornalisti sembrano intimoriti, pongono le domande con mille cautele e la sua mala educaciòn diventa una virtù. È ben preparato, non si fa turbare dagli imprevisti: «Se i giornalisti mi odiano non è un problema mio». Come sostiene Sandro Modeo nel libro «L’alieno Mourinho», l’allenatore ha invertito l’intuizione di Chesterton: non è vero che «il modo migliore per amare qualcosa o qualcuno è pensare che si potrebbe perderlo», ma «il modo migliore per farsi amare è far pensare agli altri che potrebbero perderci». Che poi è la capacità di «proiettare l’ombra del rimpianto quando ancora si sta procedendo verso il futuro», trasformando questo rimpianto nella massima motivazione dei giocatori. A differenza dei grandi leader carismatici, Mou è antipatico (in passato l’ho anche scritto), uno sbruffone, un demiurgo intollerante, ma è il primo che ha capito che il calcio è spettacolo globale, «larger than life», e che i desideri si realizzano a prezzo di una determinazione totale. Ecco, lo Special One comunica il desiderio di vittoria, un sentimento che una cultura benestante, compiaciuta, politicamente corretta sembra aver dimenticato.