Alice Pace, Wired 4/2014, 10 aprile 2014
L’AROMA DEL PIACERE PERFETTO – [2050. BANCONE DEL BAR. COLAZIONE. BRIOCHE E CAFFÈ. QUASI QUASI ME LO FUMO DOPPIO, CHE TRA VENTI MINUTI HO LA RIUNIONE COL CAPO]
Non è uno scherzo: se si scoprisse che fumarci il caffè fosse il modo migliore per assorbirne ogni sfumatura di piacere, potrebbe essere solo una questione di tempo. E addio caldo e cremoso espresso in tazzina.
Ma non c’è da preoccuparsi: succederà solo se è quello che davvero vogliamo. Gli innovatori del caffè non ci metterebbero mai in mano un cilindretto da accendere senza essere sicuri che lo ameremmo alla follia. Anzi, loro osservano le nostre reazioni mentre lo gustiamo, puntando a cogliere le nostre sensazioni. Perché ci piace il caffè? Come ci piace di più? Come potrebbe piacerci ancora di più?, si chiedono. E per verificare le risposte si affidano anche alle neuroscienze, dove le apparecchiature che ritroviamo nei reparti di neurologia diventano “macchine della verità” e il contenuto della tazzina è interpretato attraverso le reazioni del nostro cervello. Insomma, è la nostra mente a suggerire loro come formulare il caffè del futuro.
Un caffè che possiamo immaginarci trasformato nella forma e nel contenuto. Scoprire cosa suscita in noi ciascuna delle oltre 1500 sostanze sciolte in quella tazzina e ognuno degli (almeno) 800 aromi che ci riempiono il naso potrebbe spalancare infatti le porte a un caffè “studiato a tavolino”, dove amplificare, per esempio, le note che ci danno più piacere, o quelle che scatenano in noi sensazioni inaspettate, di stupore, o addirittura di pace domestica.
Ma cosa sanno già di quello che proviamo mentre lo sorseggiamo dalla nostra tazzina? «Quando degustiamo il caffè si genera nel cervello un effetto duplice, che coinvolge sia le aree cerebrali che elaborano l’amaro, la sua componente principale, sia quelle degli stimoli di piacere», ci spiega Laura Romoli, neuroscienziata della storica azienda triestina illycaffè. Se da un lato quindi il suo gusto ci gratifica con rinforzi positivi, dall’altro, con l’amaro, risveglia istinti primordiali connessi ai nostri sistemi evolutivi di allerta che captano i potenziali pericoli. Se ben ricordi, infatti, le sostanze molto amare in natura sono spessissimo velenose. Il caffè ci piace, quindi, ma allo stesso tempo ci dà un “brivido”. E chissà, un domani potremo forse calcare proprio questa nota per generare un effetto-sorpresa nel nostro ospite.
Addentrandoci poi nel labirinto dei gusti personali, c’è da chiedersi perché alcuni di noi siano amanti del caffè amarissimo, magari bollente, mentre altri lo prediligano con lo zucchero, tiepido o schiarito con del latte. Possiamo leggere anche questo nel cervello? No, a questo grado di complessità i neuroscienziati non si sono ancora spinti. Ma forse una risposta arriverà da studi complementari, tutt’altro che semplici, di genetica sensoriale: solo per quello che noi definiamo “gusto amaro”, per esempio, esisterebbe un ventaglio di oltre 35 recettori diversi, capaci di coglierne tutte le diverse sfumature. «Investighiamo sui geni e sulle mutazioni del dna che potrebbero spiegare le diversità gustative e olfattive nelle persone», ci racconta Furio Suggi Liverani, direttore del settore ricerca e innovazione dell’azienda. Per conoscere sempre più a fondo ogni aspetto del prodotto, certo, ma anche per capire a chi piace cosa e perché, individuando (e allargando) in questo modo le diverse classi di consumatori che appartengono al mercato. Già, impossibile non immaginare un marketing del futuro privo di mappe genetiche e cerebrali che descrivano i gusti dell’intera popolazione del pianeta. «Ma sotto questa prospettiva», spiega Liverani «neuroscienze e genetica sensoriale sono ancora troppo acerbe per esser prese a riferimento, e al momento la ricerca di informazioni è indirizzata piuttosto verso il senso della vista». Vi dicono nulla eye-tracking, Google Glass e Big data?
IL CERVELLO NELLA TAZZINA
Benché siano ancora immature per il neuromarketing, le reazioni che il caffè suscita sono però sempre più intriganti dal punto di vista conoscitivo e la ricerca su questo fronte è oggi molto intensa. Le “macchine della verità” più utilizzate sono l’elettroencefalogramma (EEG) e la spettroscopia a infrarossi funzionale (fNIR), che danno un’informazione del tipo on-off sulla presenza o meno di una risposta neuronale, ma anche la più affascinante risonanza magnetica funzionale (fMRI), che fornisce invece una vera mappatura in 3D delle aree di corteccia che di volta in volta si attivano. E non c’è solo il gusto, anzi, gli studi più recenti si concentrano soprattutto sulle risposte al caffè di tipo olfattivo. «Grazie all’aroma del caffè», racconta Romoli, «abbiamo scoperto per esempio che il cervello migliora l’elaborazione delle risposte olfattive con l’esperienza». Cosa significa? Che una sostanza sconosciuta produce inizialmente risposte sparpagliate, ma che ripetendo le olfazioni il cervello impara a reagire in modo sempre più organizzato. Lo useremo come test per capire se il nostro corso di sommelier sta funzionando oppure no? Perché escluderlo. Un’altra delle scoperte più interessanti, sempre sull’olfatto, ha portato a capire che, rispetto per esempio al profumo dei fiori e agli agrumi, che hanno una codifica molto diffusa a livello di memorie personali e che risvegliano le aree cerebrali deputate all’esperienza autobiografica, il caffè stimola zone molto più definite, identiche per tutti. E che si attivano in modo istantaneo, senza innescare tutta quella cascata rielaborativa di memorie e immagini tipica di fiori e agrumi. Un po’ come se il suo odore fosse così familiare per il cervello da non rendere necessaria l’attivazione di meccanismi per riconoscerlo, quasi fosse uno stimolo innato e primitivo.
Al di là degli aspetti sensoriali, la ricerca sul caffè è oggi molto avviata anche sul versante della genetica: è di fine marzo la notizia che Illy e Lavazza, con le università di Padova a Trieste e l’Istituto di genomica applicata di Udine, sono riuscite a sequenziare il genoma del caffè arabica. E sul versante della salute, in quella parte della scienza che si chiama nutraceutica: capire se in una popolazione sempre più anziana come la nostra possa addirittura svolgere un ruolo benefico a lungo termine. Via libera dunque agli studi che puntano a capire le interazioni tra i suoi costituenti e le nostre proteine, come quello che illycaffè ha appena avviato in collaborazione con il centro di ricerca Jülich di Düsseldorf, dove la chiave di volta saranno le simulazioni di queste interazioni coi supercomputer. Dal berlo per puro piacere, potremmo un giorno scoprire di avere tra le mani un mix di principi attivi.
Che dire invece delle speranze che riponiamo nella caffeina, colei che bramiamo nelle nostre pause-lavoro? È il neuroimaging che di recente ha permesso di dimostrare che questa sostanza è in grado di attivare le aree della corteccia frontale riservate all’attenzione e alla working memory, o memoria a breve termine. Insomma, la caffeina ci aumenta (anche se solo provvisoriamente) la RAM. Quindi sì, se abbiamo una riunione col capo, fumarcelo doppio potrebbe non essere un’idea così strampalata.