Carola Frediani, Wired 4/2014, 10 aprile 2014
BOOM! DIMMI COME MANGI E TI DIRÒ SE STAI SCATENANDO UNA GUERRA MONDIALE
Manifestanti in strada: gli elmetti erano costruiti con fette di pane. È forse questa l’immagine più sottovalutata della Primavera araba di quasi tre anni fa. Perché fu l’impennata del prezzo mondiale dei cereali, della carne e dello zucchero a dare il colpo finale agli zoppicanti regimi tunisino ed egiziano. E a portare in piazza milioni di persone. A oltre duecento anni dalla Rivoluzione francese il cibo rimane un catalizzatore di rivolte locali e scontri internazionali. E in prospettiva rischia di diventare il detonatore di vere e proprie crisi globali, come aveva ammonito Walden Bello in Le guerre del cibo del 2009. Non a caso, a marzo l’Onu ha rilevato che i prezzi globali alimentari sono saliti del 2,6% anche a causa della crisi in Ucraina, il sesto produttore mondiale di grano. Conflitti e rivoluzioni, cambiamenti climatici, problemi di approvvigionamento energetico o idrico, speculatori sono alcune delle grandi variabili che fanno ballare il costo delle commodities agricole. Sullo sfondo la sfida – o lo spettro – di una popolazione mondiale di circa 9 miliardi nel 2050. Ma se fosse possibile infilare un granello di conoscenza nel meccanismo? Prevedere il prezzo di un alimento? Mettere insieme e miscelare nel modo giusto algoritmi, database e supercalcolatori al punto da proiettare nel futuro il costo dei prodotti agricoli? Ne uscirebbe innanzitutto una slide con un grafico. Come quello, semioscurato e marcato “confidenziale”, che sta sul Mac di Riccardo Sabatini. Sono le previsioni a quattro settimane dei prezzi al consumo del riso. Sono le prove che testano il funzionamento di un complesso modello di previsione dei prezzi del cibo. Lui ci scorre sopra velocemente, perché i risultati – troppo interessanti per essere divulgati a cuor leggero – devono ancora essere sottoposti al vaglio della comunità scientifica. Eppure quello è il nocciolo di FoodCast, il progetto di cui è responsabile scientifico. Un database e dei modelli di analisi in grado di disegnare un’idea attendibile di futuro. E quindi una bussola fondamentale per orientarsi nei mercati globali, programmare politiche economiche, trattare con controparti agguerrite all’Organizzazione mondiale del commercio.
DATA MINING E PREVISIONI
Sul fronte delle guerre del cibo la battaglia si gioca infatti tra chi riesce a costruire la migliore sfera di cristallo. Che va riempita di tanti dati diversi, i quali vanno correlati e fatti dialogare attraverso formule magiche potenti, composte da equazioni e algoritmi. FoodCast ne ha costruita una molto robusta: mette assieme i dati del dipartimento americano dell’Agricoltura, una miniera di informazioni sull’import/export di tutto il mondo raccolte dalla rete delle ambasciate Usa; i numeri sulle operazioni doganali provenienti dalle agenzie Onu; gli archivi della Fao e quelli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare), che da vent’anni raccoglie e gestisce uno dei database più dettagliati delle produzioni alimentari italiane; le informazioni provenienti dalla Borsa di Chicago, dove sono nati i future (e la speculazione) sui prodotti agricoli. Insomma, dati di produzione, commercio, import, export e prezzi da oltre dieci sorgenti. Un archivio unico al mondo. Anche perché non basta buttare le informazioni in un solo contenitore. La questione è creare degli indici di connessione, delle conversioni che raccordino dati diversi. E poi a partire da questi elaborare dei modelli di previsione. Saper leggere i dati, insomma. «Che non sono mai il fine in sé, ma il mezzo per individuare delle dinamiche», dice Sabatini. Altrimenti il rischio è di fare la fine del “tacchino induttivista”: che dopo aver esaminato l’andamento del pollaio per 364 giorni conclude di avere davanti un futuro radioso. Peccato solo che la previsione del tacchino sia fatta alla vigilia del Natale.
«Di fronte a mercati sempre più complessi c’è bisogno di questi studi per prevenire i problemi, dato che intervenire quando si manifestano è già tardi», commenta il ricercatore. «Non è un caso che le previsioni su alcune commodities fatte dal dipartimento americano dell’Agricoltura viaggino scortate dall’Fbi». Però noi non possiamo basarci solo sugli schemi e i dati statunitensi. Serve avere almeno un modello per interpretare le informazioni degli altri. E serve un gruppo che faccia intelligence su scala globale e locale su questi temi in Italia e in Europa. «L’agricoltura moderna è una guerra di tempi. I consumatori hanno strategie giornaliere; i distributori di settimane; i trasformatori di mesi; i produttori di anni; e i regolatori – la politica – sono ancora più lenti», ammonisce Sabatini.
FoodCast nasce per affrontare una simile complessità e non è quindi un caso che a guidarlo sia un fisico, un trentaduenne che viene dalla meccanica quantistica. Uno che studiava la forza di van der Waals, l’interazione molecolare che fa camminare i gechi sui muri. E che ora si ritrova a parlare con amministratori locali, industriali, agricoltori, i tipi umani più orientati al risultato pratico che si possano incontrare. «C’è una tendenza crescente a trasferire le tecnologie usate nelle scienze di base a quelle soft, come l’economia. Perché ora anche in questi settori abbiamo a disposizione una mole di dati sui cui applicare tecniche statistiche», spiega lui, con verve imprenditoriale. Del resto il rapporto con la terra se lo porta dietro a livello geografico e famigliare: padre veterinario e radici cremonesi, nella Bassa padana.
Quando aveva solo 29 anni ed era ancora un dottorando. Sabatini ha iniziato a lavorare su un think tank di fisici, neuroscienziati, zootecnici, economisti dedicato al cibo. Se l’orizzonte ideale è sfamare 9 miliardi di persone, quello immediato è assai più pratico: come portare i matematici a lavorare sullo stinco di maiale? E qui ci mette lo zampino, è il caso di dirlo, la Regione Lombardia. Che fiuta le potenzialità di un simile progetto e, insieme al ministero dell’Agricoltura, investe 900mila euro. «La nostra esigenza era di avere strumenti il più possibile calati nelle realtà produttive», commenta il responsabile lombardo della programmazione agricola Massimo Ornaghi.
COMMERCIO GLOBALE E INDICE DI SOSTENIBILITÀ
Cominciano così gli incontri ravvicinati del terzo tipo tra le due realtà e c’è stato sicuramente qualcosa di lunare, all’inizio, nel far dialogare astrofisici con dirigenti locali alle prese con le quote latte. Ma c’era anche la determinazione a procedere lungo una strada di eccellenza. Il gruppo di FoodCast comprende, oltre a scienziati della Scuola internazionale di studi avanzati (Sissa) di Trieste, che fa da capofila, la crema delle università di Milano, Bologna e Perugia. Che non si sono fermati al database da cui estrarre previsioni. Ma hanno cominciato ad analizzare anche le rotte del mercato globale. Pensiamo alla macedonia ordinata in trattoria d’estate: se contiene banane, fragole o arance, possiamo stare sicuri che i suoi ingredienti hanno macinato chilometri per tutto il globo. Ovviamente anche qui ci sono molte variabili in gioco: prodotto, stagione, nazione. Negli Stati Uniti, ha calcolato il Leopold Center for Sustainable Agriculture, un alimento fresco percorre in media 2400 chilometri per arrivare sulla tavola del consumatore. D’altra parte non sempre e non per tutti si può ricorrere al chilometro zero. Sabatini mi mostra sul computer un grafico con gli innumerevoli tragitti che una banana può fare per arrivare da noi. «Possiamo visualizzarlo per ogni mese, ogni nazione e ogni commodity. Su questo abbiamo costruito un indice che calcola i percorsi più probabili della banana (o di un altro prodotto alimentare) in quel momento». È il Trade Impact Index, cioè un valore che misura l’impatto ambientale ed economico di un prodotto. Che loro sono arrivati ad applicare perfino al piatto che arriva in tavola. Infatti per ogni ricetta, scomposta nei suoi ingredienti principali e nei suoi pesi, può essere calcolato questo indice di sostenibilità. «Alla fine dei conti, una ricetta è un’equazione», sintetizza Sabatini con la lucidità che solo uno scienziato padano può dispiegare. Per ogni suo elemento si può calcolare quindi il Trade Impact Index in un dato momento e in una data nazione. Il gruppo di FoodCast ha scaricato il database delle ricette italiane, ne ha calcolato gli impatti e, non contento, ha elaborato un algoritmo semantico che ti tira fuori il piatto più simile a quello che volevi, ma che risulta più sostenibile. «Alla fine sono rivalutate le ricette tradizionali, quelle della nonna, che rispecchiano la stagionalità ad esempio». Ma soprattutto è come se i ricercatori fossero riusciti a connettere la Borsa di Chicago alla cena in una casa italiana; i granai dell’Est Europa con le lasagne sfornate al ristorante. Anche qui, dalla rarefatta atmosfera delle equazioni, si precipita nella rumorosa fisicità delle mense, per le quali applicare un indice di questo tipo potrebbe significare ottimizzare risorse. Grossi nomi della ristorazione aziendale sono già interessati.
«Nelle università italiane ci sono molte competenze che possono essere messe al servizio diretto della società», spiega il direttore della Sissa, Guido Martinelli, che ha appoggiato da subito il progetto e ha sostenuto Sabatini quando era un promettente, dinamico dottorando. «Non sempre i nostri ricercatori si rendono conto di avere in mano strumenti così potenti».
INDAGINI NEUROCOGNITIVE SUL CIBO
Una consapevolezza presente invece nel team di FoodCast che, non pago di aver linkato mercati globali e ossobuco alla milanese, ha deciso di spingersi ancora oltre, fin dentro al cervello di chi mangia. Per capire quanto tale aspetto sia rilevante bisogna andare indietro alla crisi aviaria del 2005-2006, quando la paura per la diffusione della famigerata influenza dai polli agli umani fece crollare i consumi avicoli. Tutti, tranne quelli relativi a un prodotto: le crocchette di pollo surgelate. Come mai una simile reazione, calcolando che il freddo non eliminava il virus? «Quando sono in atto emergenze alimentari i prodotti industrializzati, che hanno subito una trasformazione, sono percepiti come meno pericolosi. L’idea della crocchetta diventa una barriera fra noi e la sostanza contaminata, in quel caso la carne», spiega Raffaella Rumiati, professoressa di neuroscienze cognitive alla Sissa. Che all’interno di FoodCast sta lavorando alla costruzione di una mappa di cosa il nostro cervello considera mangiabile, dai cibi più naturali a quelli più lavorati, testando diverse situazioni di allarme alimentare, sanitario o finanziario. Per farlo hanno messo in piedi un altro archivio originale, si chiama Frida, un database standardizzato di immagini di cibo. E una delle distinzioni che hanno adottato nel crearlo è stata proprio la divisione tra alimenti naturali e processati. A partire da questa base hanno iniziato a fare indagini neurocognitive sul cibo, attraverso tecniche diverse che includono la risonanza magnetica funzionale. Così hanno scoperto ad esempio che l’attrattività di un alimento dipende molto dal colore: i cibi che contengono più rosso ci piacciono di più di quelli che contengono più verde, e questo rimane vero anche per i prodotti trasformati, dove una simile distinzione non avrebbe più senso in termini razionali. Ma, a meno di non essere liguri, una pasta al pomodoro convince di più il nostro subconscio di un piatto di trenette al pesto.
Tutte queste ricerche sono solo all’inizio naturalmente. Nondimeno da subito gli scienziati di FoodCast hanno avuto le idee chiare su una questione: i loro database devono essere open access. «A noi fa piacere che altri laboratori usino i nostri materiali anche per poter confrontare i nostri dati con i loro, e ciò è reso possibile dall’utilizzo di un sistema standardizzato comune», specifica Rumiati.
Capire l’influenza del priming, cioè di quella memoria implicita che ci fa interpretare uno stimolo nuovo sulla base di esperienze precedenti, nel nostro rapporto col cibo è il primo passo per costruire dei modelli di previsione che possano descrivere cosa accade alle persone a fronte di determinate situazioni. E poiché i comportamenti dei consumatori impattano a ritroso sulla filiera agroalimentare, guardare nel loro cervello è certamente un tassello cruciale del mosaico. Che potrebbe ricevere un aiuto proprio dall’Expo 2015, dove la Regione sta pensando di condurre, attraverso FoodCast, un ampio esperimento neurocognitivo. Sarebbe l’occasione per mappare culture di tutto il mondo e provare a porsi una domanda niente affatto scontata: esiste un cibo globale? Un’idea trasversale, universale e condivisa di alimento? E se dovesse esistere, siamo davvero sicuri che si tratterebbe di un cibo naturale, e non piuttosto di un prodotto (e di un marchio) industriale? La verità è che, a volte, la risposta a questo genere di interrogativi si preferirebbe quasi non saperla.