Bruno Quaranta, La Stampa 10/4/2014, 10 aprile 2014
“IO E FENOGLIO CON L’AUTO IN UN FOSSO”
[Intervista ad Aldo Agnelli] –
«Le Langhe non si perdono» è un verso pavesiano che annuncia il virgilio, il custode, l’interprete – immagine dopo immagine – delle mitiche colline. Aldo Agnelli è il fotografo princeps di zolle e caratteri e pietre fra l’alba e il tramonto, fra il tramonto e l’alba dei giorni. Al mondo che ha via via testimoniato può, lui sì, opporre le sillabe montaliane: «Ora non domandarmi perché t’ho identificato».
Novant’anni, eppure tutto è qui, tutto è ancora presente nell’atelier di Aldo Agnelli, l’atelier che è Aldo Agnelli, il confrère di Beppe Fenoglio. «Oggi ho le mani stupide» lamenta, cercando nella sua vasta galleria Martin, «il re del Tanaro: quante anime che volevano affogare ha salvato, ricevendone rosari di grazie» e la mensola dove la zuccheriera, la cuccuma, il macinacaffè hanno un respiro morandiano.
Fenoglio... Fenoglio verrà. Agnelli, una figura filiforme, giacomettiana, che sa essere aggrondata, come appare nell’annuncio dell’incontro «Uno scatto lungo 90 anni», vuol cominciare dall’inizio. Perché si discende pur da qualcosa, no? «Mio padre, milanese, fotografo della pregiata ditta Dotti&Bernini, capitò ad Alba per il servizio militare. Qui conobbe mia madre, sarta per bambini. Qui rimase, aprendo una bottega in via Mazzini, poi trasferendosi in via Maestra. Divenni suo allievo, ma la mia timidezza mal si conciliava con il lavoro in studio, allora dominante. Ho cominciato così a uscire, assaporando la Langa la domenica e il lunedì, nostro giorno di riposo. I langhetti, che parlano poco, che lavorano duro, che rispettano (che rispettavano) il dì festivo, mi aprirono le loro case, mi accolsero nelle loro aie, mi vollero al loro desco profumato di tajarin. Con la Leica, seguita dalla Rollei, li ho raccontati, trasmettendo una civiltà, un modo di stare al mondo, un galateo».
Negli Anni Settanta, introducendo Alba e la sua Langa, una promenade a colori e in bianco e nero di Aldo Agnelli («Il bianco e nero prediletto e sfidante: impone di scegliere davanti al paesaggio»), Giovanni Arpino misurò l’uomo indigeno e, quindi, chi lo ha via via posto in primo piano: «Conserva abiti mentali propri, magari lievemente mascherati per non dar noia o non subire noia dal prossimo, che certamente non puoi amare come te stesso».
«La mia Langa? L’alta Langa, che si distende verso la Liguria, badando a non superare il confine. E la Langa della valle Bormida, Cortemilia e dintorni, intatta fino a mezzo secolo fa. La mia stagione? La primavera, tale la sua delicatezza. Il mio modello? Cartier Bresson, la passione che nutriva per il teatro umano». «L’appareil photographique est pour moi un carnet de croquis» confessava il «maggiore» d’Oltralpe. I croquis, gli schizzi, le orme sul taccuino, il journal di un visionario, di un cronista (di un croniqueur) del nostro andirivieni.
Come Aldo Agnelli, di volto in volto. Cesare Pavese: «Un’apparizione all’hotel Savona...». Luigi Einaudi: «Il Presidente. In visita ad Alba nel dopoguerra, quando appuntò sul gonfalone la Medaglia d’oro al valor militare. Un ammiratore del centro storico. Dal Municipio al Seminario, dal liceo Govone a San Domenico, sollecitando – sarà ascoltato – che ne venisse rimossa la superficie in calce». Augusto Manzo: «Il re degli sferisteri, che Giovanni Arpino renderà mitico». Don Natale Bussi, il sacerdote-professore: «Riservato, a suo agio soprattutto fra i libri, una straordinaria intelligenza. Di tanto in tanto si intratteneva con me, lo ragguagliavo sulla Langa».
E Fenoglio? «L’amico. Da sempre. Mia madre acquistava la carne nella macelleria di suo padre. Ci legava il pallone elastico. Lo abbiamo fatto volare, in Alba, ovunque fosse possibile. E i bagni nel Tanaro, allora non inquinato, ammirando le ragazze. E le camminate, di paese in paese, da San Benedetto a Cascina della Langa, di mercato in tartufo, di mandria in nevicata,di botte in carro, di neve in fisarmonica, di bosco in rio, in camposanto». Come quello di Treiso, «fantomatico nell’imbrunire, vigilato da concreti cipressi in austera affezione», lo trasfigurerà Beppe nel Diario.
A piedi e non solo. «In macchina, si tornava da Mango, dove Fenoglio aveva ritirato un premio. Al volante della Cinquecento c’era lui. Avvicinandosi Serravalle, esclamò, lasciando il volante: “Che tramonto!”, Cappottammo, l’auto nel fosso. Alcuni giovani nerboruti ci rimisero in carreggiata. “Come stai?” gli chiesi. “Io bene”. Ripartimmo, in compagnia dei nostri silenzi».
C’è un’assenza nell’album di Aldo Agnelli: i partigiani, le imboscate, la guerra civile. «Rimasi in Alba, non mi si aprì il sentiero di Johnny. Perché? Sarà che non amo le armi... Durante i ventitré giorni, nell’autunno di settant’anni fa, confidai a Beppe di sentirmi in colpa. Mi rasserenò: “Il tuo posto è qui”».
In via Maestra, Aldo Agnelli, il doverista che è, mentalmente va ogni mattina, lastra dopo lastra conquistando la libertà di salire, di abbracciare, di ri-abbracciare Madre Langa, un campanile, un filare, un pozzo, una salvifica malinconia. Specialmente nella stagione a lui così intonata, la primavera (è nato il 7 aprile), tornando al 18 maggio 1959, quando Fenoglio gli dedicò la sua Primavera di bellezza. Scabra la dedica: «A Aldo Beppe con promessa di farti leggere anche il seguito». Il «cielo del Piemonte, austero, con rallentatissime evoluzioni di nuvole», come appare a Johnny, attende sempre il fotografo di Alba.
Bruno Quaranta, La Stampa 10/4/2014