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 2014  aprile 10 Giovedì calendario

ANSIOSI E FELICI


Lo stress è come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo. È tutta questione di dosaggio, perché eliminarlo dalle vene non si può né si deve. L’adrenalina è un propellente necessario, la nostra energia elettrica: senza si resta spenti, troppa e si va in corto circuito. Gli psicologi di Harvard l’hanno enunciato meglio (si chiama Legge di Yerkes-Dodson) già nel 1908 e ancora dobbiamo farcene una ragione, smettendola una buona volta di idealizzare spiagge deserte dove, dopo mezz’ora, stiamo lì a tormentare il telefonino. «Se tutti raggiungessero lo stato idilliaco vagheggiato dalla nostra frenetica società — sostiene David Barlow, direttore del Centro per l’ansia e i disturbi correlati della Boston University — , quello di passare la vita all’ombra di un albero, ciò sarebbe letale per l’umanità come una guerra nucleare». La conseguenza più diretta dell’inflazione di stress da tempi moderni è il proliferare di teorie (occidentali) a sostegno delle sue virtù benefiche, fino ad eleggerlo, addirittura, a stile di vita. Come fa la scrittrice ed editorialista Katie Roiphe sul Financial Times: «È uno stato della mente, un’atmosfera. C’è una vitalità speciale nell’ansia, una sorta di energia nevosa che non si può esattamente dire che sia divertente, ma nondimeno è leggermente assuefacente e fertile. Mia madre in uno dei suoi romanzi descrisse la scena di una donna talmente felice, sulla spiaggia con il marito e i figli, da scrutare continuamente l’orizzonte in cerca di squali. Io non sono quel tipo di persona, ma mi sono sorpresa, anche nei momenti più euforici, a cercare squali nella grigia e nebbiosa alba cittadina. Gli squali, sono arrivata a capire solo ora, fanno parte della felicità». Charles Darwin l’aveva spiegato: «Le specie che provano un’appropriata quantità di paura, aumentano le proprie possibilità di sopravvivenza». E le biblioteche universitarie traboccano di studi in materia: «In caso di pericolo imminente — certifica il professor Jeromy Caplan del New York Downstate University Medical Center — l’ansioso ha più chance di essere pronto a superarlo. Se chi ricopre ruoli di comando è incapace di vedere il pericolo anche quando incombe, minimizzandolo, è probabile che prenda la decisione sbagliata». È la filosofia del Take it heavy: falla difficile. La sindrome dello squalo ha molti seguaci: quelli che se non hanno un problema se lo inventano, se ce l’hanno lo ingigantiscono. Sapere che, secondo l’Academy of Management Journal, i nevrotici contribuiscono ai progetti di gruppo in modo più efficace degli estroversi; che, secondo una ricerca britannica, a parità di quoziente intellettivo i manager del Piuttosto li gaserà la finanza più produttivi sono quelli più ansiosi; che le persone più stressate, per il Longevity Project, uno studio psicologico durato 90 anni, cioè quelle che hanno più lavorato e più ottenuto, sono campate più a lungo; e che i bambini irrequieti, secondo lo psicanalista canadese Robin Alter, sviluppano capacità immaginative spesso molto più alte dei coetanei più calmi. Eppure 9 milioni di italiani accusano patologie da stress e ogni anno in Europa vengono spesi 25 miliardi per combatterlo. «Gli stress insostenibili in realtà sono pochi, mentre la maggior parte serve a tener desta l’attenzione» dice Eugenio Borgna, primario di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara, forte di una lunga bibliografia sul tema(Le figure dell’ansia è alla quarta ristampa per Feltrinelli). «Nei secoli la fenomenologia delle grandi forme depressive non è mutata mentre si è abbassata la soglia di resistenza e comprensione delle situazioni stressanti che così destano subito contraccolpi più intensi. Aumentano le forme di stress derivanti dalla disperata ricerca di traguardi che, una volta raggiunti, vengono poi colti nella loro miseria, lasciandoci ancora più stressati: meglio essere tartarughe che Achilli piè veloce. Ed è infinitamente meglio avere l’ansia come compagna di strada che non camminare privi: si corre il rischio, sennò, di vivere senza pathos, senza capacità di distinzione tra ciò che serve sopportare passivamente e ciò che va trasformato in esperienza vissuta». I rotocalchi accorrono in soccorso con decaloghi di sopravvivenza a base di yoga, respirazione, sibilità, passeggiate, fagioli o cereali integrali: «Promesse impossibili e inutili perché lo stress non si elimina: noi siamo fatti per conviverci quotidianamente» afferma lo psicologo scalatore Pietro Trabucchi, autore di Resisto dunque sono (Corbaccio). «È un insieme di risorse che abbiamo in dotazione. È ciò che viene definito resilienza, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate: il contrario della fragilità». Durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale a Londra diminuirono i ricoveri negli istituti di igiene mentale, anziché incrementare come si temeva. E per contro in quelle regioni del mondo dove oggi non c’è traffico né disoccupazione, s’impennano i tassi di alcolismo e suicidi. Perché dunque un collega o un semaforo ci stressano più di un cacciabombardiere sulla testa? Questione di cellule. «Madre Natura — risponde sempre Trabucchi — ci ha dotato di un sistema biologico finalizzato ad aumentare le pose di sopravvivenza in caso di minaccia, detto FFR, Fight or Flight Response: lotta o fuga. Davanti allo stimolo emozionale, i centri nervosi rilasciano ormoni, tra cui l’adrenalina, che attivano una reazione intensa. Se anche le fonti di minaccia oggi sono più astratte e immateriali, come le tasse o un ingorgo, la nostra struttura cerebrale è sempre la stessa di centinaia di migliaia di anni fa e la risposta è uguale, che ci sia davanti un capoufficio o un orso che punta alla giugulare». Magari non proprio al cospetto di un grizzlie ma di un mostro interiore, il cervello diventa anche più fantasioso e immaginifico. «L’ansia è l’ancella della creatività », si consolava l’ansioso TS Elliot. Il luogo comune è rafforzato da un’interminabile fila di testimonial: Kafka, Woody Allen, Proust, Newton, Freud, Emily Dickinson. E via discendendo, per ore, fino a Fiorello. Anche il solare e pacioso scrittore Maurizio De Giovanni, papà della fortunata serie del commissario Ricciardi (Einaudi), è un altro che non sta bene se non sta male: «Mi metto a scrivere a un mese esatto dalla consegna in stato febbrile di totale immersione. Mi chiudo in una stanza con la stessa tuta addosso, lavandomi anche poco e male, e sprofondo nella mia angoscia, sicuro ogni volta di non farcela, profondamente convinto della mia inadeguatezza fino alla fine, deciso a difendere questa sensazione perché porta al massimo della concentrazione e del rigore». Difficile però immaginare un’apoteosi di stress più intensa di chi si gioca quattro anni di vita, sogni, allenamenti e futuro in un millesimo di secondo e un millimetro di bersaglio, nell’ultimo colpo di carabina sparato dall’ingegnere Niccolò Campriani, oro e argento nel tiro a segno alle Olimpiadi di Londra 2012. Mica per niente ci ha scritto un libro (Ricordati di dimenticare la pau-ra, Mondadori). «Se invece di stress lo si chiama “attivazione” ecco che può diventare un utile alleato. Una prova? Tutti i miei record personali sono in gara: in allenamento non mi sono mai neanche avvicinato a tali livelli. Tuttavia non è facile individuare il proprio livello ottimale di attivazione. Per conoscersi meglio bisogna sapersi ascoltare e soprattutto bisogna mettersi alla prova. L’importante è che sfidiate voi stessi e che godiate di quella dolce sensazione di inquietudine. A tal proposito l’autrice e artista Vivian Greene dice: “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a danzare sotto la pioggia”». Altro che sole tropicale.

Emilio Marrese, la Repubblica 10/4/2014