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 2014  aprile 10 Giovedì calendario

PIF: «FARO’ UN MUSEO DELL’ANTIMAFIA»

«Sa qual è il rischio? Che ora mi prendano per un intellettuale. Ma io so come salvarmi: per ogni cosa seria dico tre minchiate». Scherza, Pif, all’indomani del successo del film La mafia uccide solo d’estate che ne ha fatto un’icona – lieve e ironica - dell’impegno per la legalità, e alla vigilia del ritorno su Mtv con Il Testimone, sesta edizione del viaggio curioso intorno al mondo di cui è autore, regista e protagonista. Palermitano, 42 anni, parla facendo lo slalom tra saluti e autografi.
Dura, eh, la vita della star…
«Non esageriamo. Diciamo che prima ero un personaggio di nicchia, e il film e poi Sanremo mi hanno trasformato in un personaggio pubblico. Ma non è che mi dispiaccia essere fermato per strada. Però sento che la gente mi percepisce in un modo diverso, quando in realtà faccio esattamente le stesse cose che facevo prima. Ora sento di essere più responsabile di quel che dico».
Però lei ci mette del suo, lo ammetta. Ora lancia il museo dell’Antimafia a Palermo. Dopo due secoli in cui la Sicilia s’aggroviglia sulla dialettica mafia-antimafia non sarebbe ora di andare oltre?
«E’ vero che la Sicilia non è tutta lì, ma il rischio è anche l’opposto, cioè fare finta di niente. La mafia c’è, dobbiamo farci i conti, altrimenti bisogna dividersi i compiti: uno parla del mare, uno del sole, uno dell’arte, e l’altro della mafia. Sa che un mio compagno di scuola durante il viaggio di istruzione fingeva di essere di Bologna? Con un accento improbabile, poi. Si vergognava. Ma dobbiamo ricordarci di essere conterranei, oltre che di Totò Riina, anche di giudici come Rocco Chinnici. E se lo ricorda quel geniaccio di Gianfranco Micciché che voleva cambiare il nome dell’aeroporto Falcone-Borsellino per non connotare negativamente Palermo?».
In realtà perché, diceva, portava sfiga. Acqua passata, per fortuna. Che cosa ci vuole mettere dentro al museo?
«Voglio ricordare chi ha combattuto e nessuno ricorda più. Perché tutti devono sapere chi è Riina, e nessuno ricorda l’agente di polizia Calogero Zucchetto o l’albergatore Carmelo Iannì? Tre anni fa sono andato a Palermo con la figlia di Boris Giuliano e con la figlia di Iannì, lanciando l’idea. Ci fu una mezza levata di scudi, tanti a dire: ci stiamo già pensando noi. Abbiamo fatto un passo indietro, ma in questo tempo non è successo nulla. Allora lo faccio io, anche in un monolocale, se non c’è’ altro spazio. L’ideale sarebbe un bene confiscato alla mafia, ma deve essere in centro città, facilmente raggiungibile dai turisti, bisogna avere una mentalità anche commerciale. A Palermo i trasporti sono pessimi, non possiamo pensare che la gente aspetti l’autobus per andare a Brancaccio. In ogni caso del museo mi occuperò in estate, adesso c’è Il Testimone».
Stavolta è andato davvero ai quattro angoli del pianeta. In Groenlandia, a trovare gli italiani tra i ghiacci, a Las Vegas a folleggiare, in Messico dai Tarahumara, il popolo della corsa. Perché corrono sempre?
«Non hanno macchine, e devono andare veloce. Uno choc stare lì senza telefonino, senza Internet. Per organizzare una partita di calcio ci mettono quattro ore: devono chiamare tutti. Ma anche in Groenlandia mi scattava il nervo dell’occhio perché non riuscivo a controllare la posta. Poi, quando l’ho controllata, mi sono accorto che niente, ma proprio niente, è fondamentale».
Non solo isolamento. Si è concesso una puntata nella fashion week milanese, e pure a Miami…
«Ho vissuto a Milano per anni. E non ho mai capito che cosa fosse davvero questa fashion week. Per me la questione si limitava alle modelle che giravano con la cartina in mano a cercare l’ufficio casting. Ora ho voluto andare oltre. Siamo il Paese della bellezza, è pazzesco scoprire il lavoro che c’è dietro a un maglione di qualità. Quanto a Miami, è quello che vorrebbe essere Milano. Ci trovi la Canalis, Vieri, i locali e le discoteche che Milano imita. E poi Palermo imita Milano…»
«Si è sempre meridionali di qualcuno» diceva De Crescenzo…
«Aveva ragione».