Nicola Lombardozzi, la Repubblica 9/4/2014, 9 aprile 2014
TRA LE BARRICATE DEI FILO-RUSSI “INDIPENDENZA ANCHE A DONETSK”
Ucraina. Donetsk.
Un’assurda luce blu al neon illumina dall’alto le barricate e le bandiere di viale Pushkin dove tremila russi si preparano a difendere il loro primo piccolo avamposto sul territorio ucraino. «Guerra civile? Noi minatori moriamo anche senza bisogno di guerra. Cambierebbe poco», dice un giovane dai capelli rossi che agita un bastone di almeno un metro e continua a ispezionare le trincee costruite insieme agli altri in poche ore. Filo spinato nuovo di zecca srotolato con una certa competenza su una pila di copertoni da camion, nuovi e tutti uguali; sacchi di cemento di identiche dimensioni e tutti provenienti dalla stessa fabbrica. Sembra un lavoro preparato per tempo ma nessuno lo ammette: «È stato tutto improvvisato e spontaneo, sono mesi che chiediamo di essere ascoltati, adesso abbiamo deciso di agire e nessuno ci manderà via». Ci sono molte donne, studenti, tantissimi operai delle fabbriche di provincia e soprattutto loro, i minatori eredi dell’immortale eroe del lavoro sovietico Stakhanov che si considerano il simbolo e l’anima di questa parte di Ucraina legata a Mosca da un antico amore e da tanta nostalgia reciproca. Il gigantesco Palazzo della Regione occupato domenica notte ha un aspetto spettrale come tutto il centro di questa città ripulita di fresco, per gli Europei di Calcio di due anni fa, in cui il traffico scorre fin troppo ordinato e i negozi della passeggiata restano aperti come se non fosse successo niente. Ma non è come sembra. La polizia ha circondato discretamente la “testa di ponte russa”; in periferia camion dell’esercito sarebbero pronti a scaricare colonne di uomini armati al primo ordine impartito da Kiev. E le voci che arrivano dal governo centrale non promettono niente di buono. Indurite le pene per le manifestazioni secessioniste paragonabili a “terrorismo”, polizia autorizzata all’uso della forza. Anche i controlli si sono fatti più severi, quasi ostili. Ieri dieci passeggeri russi del volo del mattino da Mosca sono stati rimandati a casa senza spiegazioni. Per tutti gli altri un inusuale interrogatorio che non ha precedenti tra due nazioni che non hanno mai avuto nella loro storia né barriere né controlli doganali. «Cosa venite a fare in Ucraina?», «Perché proprio adesso?», «E dove alloggiate, chi incontrate, perché?». Minacce accompagnate da notizie inquietanti che nessuno può verificare. I servizi segreti ucraini dicono che a Lugansk un gruppo di filo russi terrebbe in ostaggio almeno sessanta persone sotto la minaccia di cariche di esplosivo. La gente di viale Pushkin nega e interpreta a modo suo: «Stanno preparando il terreno per giustificare un massacro, falsificando la realtà». E c’è una strana calma che nasconde una paura evidente. Si prova a far finta di niente canticchiando le canzoni sparate a tutto volume dagli altoparlanti da stadio che qualcuno ha piazzato proprio davanti alle barricate: una versione rock dell’inno russo e la canzone Nato in Unione Sovietica che ha già fatto da colonna sonora, appena un mese fa, all’annessione russa della Crimea. Qui in realtà le cose sono più confuse che nella penisola occupata dalle truppe russe mascherate. Un tale va in giro dicendo che ormai c’è un governo provvisorio di Donetsk e di tutto il Donbass ma nessuno sa bene di chi si tratti e soprattutto dove si trovi. Attraversando la folla si possono raccogliere le opinioni più disparate su quello che sta accadendo e su quale sia l’obiettivo finale. Igor, quarant’anni, metallurgico di Gorlovka, sembra inconsapevolmente allineato con le posizioni formali del Cremlino: «Kiev deve cacciare dal governo i fascisti di Pravi Sektor e trattare con noi, avere per la prima volta da anni un po’ di rispetto per i russi di Ucraina. Potremmo per esempio discutere di una struttura federale del Paese». Agita anche lui il suo bravo bastone ex-tralargema precisa: «L’importante è che tutto avvenga senza violenza». Ma ci sono altre idee e altre speranze. Un gruppo di minatori sostiene che forse il Paese sarebbe meglio dividerlo decisamente in due: da una parte l’occidente filo europeo e dall’altra il sudest russofilo. Un gruppo di donne guidate dalla battagliera settantenne Inna comincia invece a fare i conti e a vagheggiare l’opzione Crimea: «Perché non dovremmo andare anche noi con la Russia? Una mia amica di Sebastopoli si è vista triplicare la pensione. Altre persone che conosco da quelle parti mi confermano che sotto Mosca si sta già molto meglio». Geopolitica da marciapiede che non tiene conto delle implicazioni internazionali. Anche da Mosca arrivano segnali contrastanti. Annettersi metà dell’Ucraina non sembra un’ipotesi presa minimamente in considerazione. Ma tenere alta la fiamma della contestazione torna molto utile per le trattative diplomatiche. Qualcuno, a viale Pushkin, ne è consapevole. Un signore baffuto che guarda ammirato la fattura delle barricate sintetizza: «Noi dobbiamo solo resistere. Poi qualcosa succederà. L’importante è non farci calpestare da un governo illegittimo come quello che ha preso il potere a Kiev». E per cercare un filo razionale in questa rivolta senza un obiettivo preciso bisogna forse guardare all’apparizione mattutina di Rinat Akhmetov, il miliardario più amato dai russi di qui, quello che ha sponsorizzato e poi abbandonato il presidente Yanukovich; quello che ha reso famosa in Europa la piccola squadra di calcio locale dello Shaktar (che vuol dire Minatore). L’oligarca è venuto in visita al palazzo occupato, si è offerto come mediatore. Ha già parlato con molti esponenti del governo attuale di Kiev. Porta la voce di Mosca e anche le ragioni dei tanti industriali locali che avrebbero grandi svantaggi da una rottura con la Russia ma che non potrebbero reggere economicamente la spaccatura del Paese. La tensione per strada fa anche il suo gioco. E in molti lo sanno. Igor tranquillizza gli altri: «Restiamo tutti qui e vedrete che le cose non potranno che migliorare».
Nicola Lombardozzi, la Repubblica 9/4/2014