Raffaela Carretta, IoDonna 5/4/2014, 5 aprile 2014
PER DARE FORMA ALLE COSE MI ISPIRO A UNA (BUONA) FRITTATA
[Paola Navone]
«Non ho mai comprato un pettine in vita mia» dice Paola Navone e si passa le mani nella zazzera grigia scompigliandola con movimenti veloci, dalla periferia al centro, come terra da rivoltare usando pochi, precisi tocchi di rastrello. «Non l’ho mai tinta, avrei il problema della ricrescita e mi farebbe orrore. Il mio vecchio parrucchiere, era meglio di un analista, diceva: “Mia cara, tratti i capelli come se fossero peli superfui…”».
Una bella sicurezza in se stessa? «No, fisicamente non mi piaccio. Come minimo dovrei dimagrire, ma ho una curiosità abnorme per il cibo. Se mi si dice che questa carta si mangia, io assaggio. Se ho davanti un’insalata di uova di formica, e mi è successo, io la inghiotto».
A 64 anni Paola Navone è un personaggio di punta di quel design internazionale che dall’8 al 13 aprile celebra il suo evento massimo. «Il salone del mobile è un miracolo di Milano, il posto numero uno al mondo. Le presentazioni esterne si sono dilatate, ma dentro non si è snaturato, la sua forza è la stessa del made in Italy: concentrarsi sul prodotto». È impossibile fare l’elenco sterminato di consulenze e direzioni artistiche che Navone ha macinato per le aziende, i premi vinti, le mostre ideate nel pianeta. Ora, per la prima volta firma due hotel (a Phuket, in Thailandia, e a Miami Beach) per Christina Ong, signora cinese, beata lei ricchissima, «la più grande buyer internazionale, proprietaria di favolosi resort da Bali ai Caraibi. Mi ha confessato che all’inizio la preoccupavo. È abituata ad architetti che s’incaponiscono e non mollano quando viene chiesta una modifica. E invece ho sempre pensato che il design somigli a una frittata: ai funghi o alle zucchine, basta che sia buona. Non amo soffrire, nel dare forma alle cose sono pronta a buttare».
Nel dare forma alle cose si comincia da sé. Anelli giganti alle dita, meravigliose collane e sulla faccia due oblunghi occhi chiari che sembrano muoversi obbedendo a un compito ovvio, enfatizzare con la loro danza ogni parola della proprietaria. Nella factory milanese si aggirano apprendisti vestiti di nero o in tuta militare, magari skateboard-muniti («per andare a casa»), tutti giovanissimi, come se l’avanzare dell’età fosse una prerogativa regale, concessa solo ai maestri in segno di venerazione. «Bravissimi, ma, si divertiranno? A volte me lo chiedo, sembrano così saggi, vecchiettini quasi. Alla loro età ero molto più pazza. Forse è Milano…».
LEI A QUATTRO ANNI aveva già deciso di lasciare la sua città. «I miei erano come sono i torinesi: sabaudi. l’unica speciale era nonna Vittoria, abitava in collina con una voliera in cui allevava lumache, il suo piatto migliore. Per gli altri non andavo mai bene. Mamma si lamentava sempre. Mio padre… erano le sue occhiatacce a farmi scattare. La sera fissavo tre foto di un villaggio del Mali che avevo appeso sul letto: a distanza sempre più ravvicinata c’erano le capanne dei Dogon, una popolazione indigena. Dogon, Dogon, lo ripetevo piano come un apriti-sesamo. E mi addormentavo».
Promessa mantenuta con successo. La costante della storia sono “le radici rattrappite” che non si ramificano in nessun terreno. Essere in transito non è solo un accompagnamento alla vita, è la vita stessa, la forma liquida del suo funzionamento. «Tutto nasce dai viaggi, un’esperienza totale, dove accumulo immagini che finiscono nel bidone della mia testa. E da lì, all’improvviso, tiro fuori qualcosa». È sempre stato così, e sempre inseguendo il caso. «Mi sto laureando in architettura al Politecnico di Torino, al bar conosco dei giovani etnologi e li seguo per due anni in Camerun. Poi, il mio fidanzato di allora è spedito in Cina ad aprire il primo ufficio dell’Eni: ci vado. Per vent’anni faccio avanti e indietro con il Sud-Est asiatico, Filippine, Indonesia, Thailandia. In Cina c’era Mao, estetica estrema, quasi vuota. Quando cade il divieto di viaggiare fuori Pechino mi ci butto, ma scopro che l’interprete sa solo il tedesco: una con gli occhi tondi parla la lingua dell’Occidente, italiano o tedesco che differenza ci sarà mai?».
L’ALTRA METÀ DEL PENDOLARISMO è nella Milano anni Settanta, pronta a sconvolgersi nei sussulti creativi. «Mi chiama Alessandro Mendini che ha letto la mia tesi. E con lui conosco l’uomo più disinibito del mondo, Alessandro Guerriero, un catalizzatore di talenti. Stavano fondando lo studio Alchimia e dentro c’erano tutti, da Ettore Sottsass ad Andrea Branzi. Lavoravamo a mobili assolutamente invendibili e senza essere pagati una lira, ma era la più eccitante caccia alle idee mai tentata. Sottsass era ammaliante, Mendini più geometrico, machiavellico. Tra loro la magia si ruppe e Sottsass andò via per lanciare Memphis. Anche Guerriero più tardi si separò da Mendini. E ne uscì collassato, la sua vita si spezzò».
Per lei, al contrario, nella bulimia delle cose viste c’è una certa inafferrabilità sentimentale: tutto è utilizzabile ma forse nulla rimane, se non il movimento stesso. Qualcosa di vago e affine al cuore confuciano dell’Asia. «Sono Paesi mentalmente nomadi, la gente è impenetrabile e leggera. Noi nascondiamo i fallimenti, loro no e ripartono da capo. E la religione non è opprimente, se il tempio buddista è lontano, vanno in chiesa». Essere nomadi esclude la presenza dei figli, una decisione ammessa con trionfale sincerità. «L’unico vero successo è stato non fare bambini. Non ho il senso della maternità». Forse anche quello dell’amore che fa perdere la testa? «Francamente, non mi è mai successo. È grave? I veri amori sono gli amici che da trent’anni mi hanno segnato la vita».
UNO È DANIEL Rozensztroch, esperto di design, consulente di Marie Claire Maison, direttore artistico di Merci: un concept/charity store situato vicino alla Bastiglia che aiuta donne e bambini del Madagascar. A due passi Paola Navone ha una luminosissima casa. «La divido con Daniel in attesa che finisca la ristrutturazione della sua, nel Marais. Daniel ama gli uomini, tra noi il sesso è fuori questione ». Era gay anche l’altro amico di una vita, Philip Cutler, scomparso nel 2009. Uno di quei personaggi che faticano a stare in una definizione sola se non, forse, che hanno interpretato la vita magnificamente, come un’arte. «Aveva un gusto impeccabile, era incantevole e diabolico, capace di sedurre tutti essendo brutto e, col passare degli anni, un po’ stortignaccolo. È stato un grande buyer dei magazzini Macy’s e Lord & Taylor, il sublime viaggiatore di un’epoca in cui si poteva spendere un patrimonio soggiornando mesi all’Imperial di Tokyo. E solo per occuparsi di cestini del XVII secolo». È con Daniel e Philip che Navone ha fatto i viaggi davvero indimenticabili. Sempre cercando lo stesso stupore di fronte alla bellezza: forse il motore di tutto, per tutti e tre.