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 2014  aprile 05 Sabato calendario

CONFESSO HO MOLTO AMATO


[Eugenio Scalfari]

Ho amato molte donne, se con amare s’intende l’appetito del corpo. Ma in novant’anni, volendo tirare la linea a quest’altezza della vita, ne ho amate davvero solo cinque: mia madre, le mie due mogli, le mie due figlie. Sono stato figlio unico di una madre bella e fragile, che fin da piccolo ho protetto come fossi suo padre. Sono stato e sono padre felice di due figlie femmine. Per molti anni della mia vita adulta sono stato bigamo. Ho amato due donne dando loro e prendendo da loro meraviglia e dolore, e quando il dolore ha sovrastato la bellezza - è sovente accaduto - ho provato a separarmi dall’una o dall’altra ma sempre la parte mancante mi doleva come un’amputazione. Ho detto a ciascuna, separatamente, infine: voi fate parte di me. Non riesco a prendere una decisione drastica, vedete che ho provato ma non riesco: fatelo voi, mi atterrò alla vostra scelta. Né Simonetta né Serena, in quel momento, hanno voluto. Non allora né negli anni a venire. La nostra relazione triangolare ha procurato a ciascuno felicità e certamente sofferenze, ma è stata a conti fatti una fortuna grande. Le racconto un solo episodio, l’ultimo. Quando Simonetta, la mia prima moglie, si è ammalata sono rimasto con lei e con le nostre figlie nella nostra casa coniugale, per sette mesi non ho visto Serena. Il compleanno di Simonetta era il primo dicembre, è morta il 15. Non usciva più dalla sua stanza, alla fine non si alzava dal letto. Il giorno del compleanno Serena le ha mandato come regalo un profumo per l’ambiente molto peculiare: odorava di erba fresca, di prato tagliato, di giardino. Era il profumo del mondo fuori, la natura che amava e che adesso le era preclusa. Nelle ultime ore di vita Simonetta continuava a chiedermi: spargi, per favore, il profumo di Serena. Ancora adesso, vede, è un ricordo che porta lacrime».
Il tema di questa conversazione con Eugenio Scalfari è, avete capito, “le donne e io”. È stato un pomeriggio di ascolto, un lungo monologo interrotto da domande. Scalfari, seduto nella poltrona fiorita nella mansarda dove lavora - colma di vecchie foto, di libri, luce, appunti di minutissima grafia e un tavolo da biliardo - ha parlato a lungo della sua terra d’origine per il ramo paterno, la Calabria, dei suoi genitori, della prima esperienza di amore carnale in un bordello, a Sanremo. Dei suoi anni giovanili a Milano e dell’incontro con Simonetta De Benedetti, figlia del giornalista Giulio. Di quelli dell’Espresso, a Roma, e dell’incontro con Serena Rossetti, oggi sua moglie. Di Ulisse, molto a lungo, che «da maestro d’inganni divenne maestro di conoscenza attraverso l’incontro con cinque donne»: Atena, Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope. «Il fato diceva che doveva tornare da Penelope, e il fato è più forte degli Dei. Nulla poterono la promessa d’immortalità di Calipso, le arti magiche di Circe, l’amore della vergine Nausicaa». Poi ancora di donne nel lavoro: le giornaliste che hanno fondato con lui Repubblica. Di Serena moltissimo, di nuovo e infine, perché l’amore è adesso. Servirebbero pagine per raccontare tutto. Un giorno, forse. Qui qualche frase, per capitoli.
Mia madre. «L’amavo molto, sapevo che era fragile. Il suo rapporto con mio padre lo era. Io bambino desideravo solo che i miei genitori non si separassero. Mio padre rientrava tardi la notte, in specie negli anni in cui lavorava al casinò di Sanremo. Era andato, da giovane, a Fiume con D’Annunzio. Immagino ne abbia fatte di cotte e di crude. Era avvocato, giocava a poker, la notte vagava, la mattina dormiva. Quando da Civitavecchia, città d’origine della mia famiglia materna e luogo dove sono nato, si trasferirono prima a Roma e poi a Sanremo mamma perse il legame con le sue radici. Andò in depressione. La mattina quando andavo a scuola mi diceva: figlio mio abbracciami, non so se mi ritrovi. Avevo 14 anni. Ricordo che ero felice quando li sentivo fare l’amore al di là della parete della mia stanza. Non mi addormentavo finché mio padre non rientrava. Quando lo sentivo entrare nella stanza di mia madre aspettavo i suoni dell’amore, solo allora riuscivo a prendere sonno. Sono stato il padre dei miei genitori. Volevo che non si lasciassero: ero obbediente perché così esercitavo su di loro un potere. Comandavo che non si lasciassero. Non ho conosciuto il complesso di Edipo. Non ero geloso di mia madre, non volevo sostituirmi a mio padre. Ricordo anzi che molto presto ho iniziato a provare imbarazzo quando per strada lei mi prendeva sottobraccio».
La Calabria. «Vibo Valentia l’ho conosciuta da ragazzo. Ho trascorso in quei luoghi un periodo molto lungo attorno ai miei vent’anni. Mio nonno paterno, Eugenio, uomo erudito, è morto che avevo 9 anni. Ne ho un ricordo vivo. Ero l’unico nipote maschio. La stirpe a cui appartengo è cresciuta tra mura e rovine minoiche. Gli uomini, negli anni della mia infanzia e giovinezza, si comportavano con le donne come si faceva a quel tempo. Le contadine anche molto giovani erano oggetto degli appetiti dei signori, c’era una sorta di ius primae noctis. Ricordo di aver imparato molto presto una massima della cultura contadina. Diceva che il pericolo di adulterio si annidava nelle “tre C”: il compare, padrino del figlio che entra in casa a trovare il bambino e butta un occhio sulla madre, il cugino, il cognato. Le donne partorivano, cucinavano, crescevano i figli e sopportavano il resto in silenzio».
L’amore carnale. «Eravamo, al liceo, una banda. Quindici-venti ragazzi, solo maschi. Italo Calvino uno di noi. In seconda liceo fummo accompagnati da uno dei ripetenti della nostra classe al bordello. Era così che si conoscevano le donne. D’altra parte la verginità era un totem, le ragazze non si concedevano a rapporti completi prima del matrimonio. Potevi, con loro, andare al cinema, sederti in ultima fila e baciarle. Tutt’al più carezzarle in zone periferiche. Al bordello non rifiutai, ma non mi divertii. Feci il mio dovere. Non ci sono più tornato. Calvino no, uscì urlando».
Il primo amore. «Conobbi Simonetta alla fine di novembre del ’50, sotto i portici di corso Matteotti a Milano. Passeggiava in compagnia della segretaria di redazione del Mondo, Patrizia, che conoscevo bene. Mi colpirono i suoi occhi. Disse domani è il mio compleanno, perché non viene. Comparve sulla porta con un Martini in mano per me, come negli anni le avrei visto fare con ogni ospite. Era separata, allora, da un direttore d’orchestra di Vicenza. Faceva la fotografa, lavorava con Cavallari e con Afeltra. L’indomani la chiamai per ringraziarla, mi invitò di nuovo. Al terzo incontro arrivai con un libro di poesia. Le avevo chiesto: ama D’Annunzio? Non molto. Ha letto Il piacere? No. Glielo regalai. Le dissi: vorrei leggerle una poesia, L’oleandro, quando si stanca me lo dica. Non si stancò. Quella stessa sera rimasi a dormire da lei. Simonetta mi ha insegnato ad amare la musica sinfonica, a trarre piacere dall’ascolto. Nel corso del nostro matrimonio ho avuto molte avventure ma lei non ci dava peso. Sentiva il radicamento della nostra unione. Non conoscevo senso di colpa. Insieme ridevamo della psicanalisi».
L’amore, senza dubbio. «Vidi Serena la prima volta in piazza di Spagna, di spalle. M’innamorai delle sue gambe. È quel che mi ha sempre colpito per prima cosa nelle donne: le gambe. Era molto bella, aveva capelli lunghissimi. «Questa donna è una bomba, devo conoscerla», pensai. Ancora non sapevo quanto esplosivo e profondo sarebbe stato il suo potere su di me. Molto tempo dopo la reincontrai in via Veneto, dove suo padre aveva la libreria Rossetti. La riconobbi dalle gambe. Lei aveva all’epoca una relazione con un uomo sposato. Non mi vedeva, ero trasparente. Poi morì sua madre, il suo amore finì. Ci rivedemmo per caso da Amerigo, il piano bar dove andavo tutte le sere. Si era tagliata i capelli cortissimi, quasi a zero. Studiava a Oxford, mi canzonava molto: “Vestito così sembri Andreotti”, mi diceva. La invitai a ballare, le feci capire il mio desiderio di lei. Mi tenne in quarantena sette mesi. Faceva la fotografa, anche lei. La sera che mi disse va bene, vieni, facciamo l’amore, per l’emozione non riuscii. Lei mi carezzò e mi disse: ho sbagliato io. La data del nostro incontro è il 21 gennaio ’66. Presto venne a lavorare all’Espresso. Non potè farlo da fotografa, si adattò a svolgere perfettamente compiti di ausilio al lavoro di redazione. Serena mi ha insegnato a guardare dentro me stesso. Aveva consuetudine con la psicanalisi, l’ho capita e apprezzata grazie a lei. Con lei sono diventato femminista: nel suo modo, che è quello di rivendicare gli stessi diritti ma non l’omologazione dei valori. I valori maschili sono diversi da quelli femminili. Il potere in sé, salvo eccezioni, non è un valore femminile. Per le donne il successo è lo sviluppo di un progetto, l’affermazione di un obiettivo. Non il potere in sé. Nel ’73 ci fu tra noi una rottura che sembrò definitiva. Ne parlo un poco nel libro L’amore, la sfida, il destino. Quando ci riconciliammo le dissi: sono capace di essere bigamo ma non di avere figli da donne diverse. Accettò, non ne abbiamo discusso mai più. Sono certo che sia stato per lei un sacrificio grande. Quando molto tempo dopo le ho chiesto di sposarmi lei mi ha detto no, due amanti non si sposano. Ci siamo sposati, infine. Le sono stato sempre fedele. La amo profondamente».
Le figlie. «Le mie figlie sono state la gioia più grande della mia vita. La gioia perfetta».
Le donne al lavoro. «Rosellina Balbi, Miriam Mafai, Natalia Aspesi sono state tra le fondatrici di Repubblica. Rosellina era perfetta nella direzione del servizio Cultura, che ho sempre considerato il più importante del giornale. Natalia era già allora di gran lunga superiore a Camilla Cederna. Miriam, compagna di Pajetta, è stata un inviato politico di prim’ordine. La prima assunta fu Irene Bignardi. Sandra Bonsanti è stata una colonna, subito dopo è venuta una generazione di donne nuove: coraggiose, tutte. Sorde alle lusinghe del potere, disinteressate ai privilegi e generose. Hanno dato al giornale più di quanto il giornale abbia dato loro. Ho imparato da loro quel che c’è di più importante, il senso ultimo della vita. Mi scuso, ora e con tutte, degli errori che ho commesso. Devo loro solo un grazie».
Serena, da ultimo e di nuovo. «A volte, ancora, sbaglio il nome di Serena con quello di Simonetta. Lei non mi corregge mai».