Elena Martelli, il Venerdì 4/4/2014, 4 aprile 2014
LA SERIE FANTASY CHE PIACE A CHI NON AMA IL FANTASY
LONDRA. Esagerando, si potrebbe dire che il mondo si divide tra chi ama la saga medievale de Il Trono di Spade e chi ancora la snobba. Un’esigua minoranza, quest’ultima, che dovrà faticosamente spiegare alle future generazioni perché, a un certo punto, un po’ di bambine hanno iniziato chiamarsi Arya, in onore di Arya Stark, che col suo look da ragazzaccio e il coraggio da guerriero, a dieci anni è diventata un’icona femminista.
Nella storia è una delle figlie di Ned Stark, Lord di Grande Inverno, a capo di una delle sette famiglie aristocratiche in guerra fra di loro per contendersi il sanguinoso trono dell’immaginario regno di Westeros.
Vi basti questo per capire la trama, impossibile da sintetizzare, vista la moltitudine di personaggi tutti altamente pericolosi, su cui si basa la saga ispirata al ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, scritta per la tv da David Benioff (autore e sceneggiatore anche della 25ª ora di Spike Lee) e D.B. Weiss. Insomma, il caso Arya serve a far capire quanto sia enorme, sconsiderato e quasi folle l’impatto che la serie sta avendo sulla cultura popolare, che le élites un po’ snob tendono a sottovalutare. Come l’autorevole critico tv del New York Times che, tre anni fa, quando la serie fu lanciata, non si capacitava del perché proprio un colosso della tv intelligente come HBO (il cui claim è sempre stato «Questa non è tv è HBO») si fosse anch’esso piegato al genere fantasy truculento, dove i neonati vengono sgozzati in braccio alle madri, i bambini di sette anni vengono buttati dalla torre e uno di dieci come il re Joffrey Baratheon comanda il suo regno con sadismo inaudito.
Insomma, un’epica grandiosa piena di violenza, sangue e sesso, alla stregua di Spartacus, I Borgia, I pilastri della terra e via dicendo. Ma la ragioni del successo planetario de Il Trono di Spade (amato anche dal presidente Obama che non si perde una puntata) è proprio il fatto di aver sedotto una fetta di pubblico che mai e poi mai avrebbe guardato una serie fantasy, se questa non avesse riformulato certi cliché del genere, soprattutto grazie alla forza letteraria del testo.
Gli elementi fantastici – draghi, elfi e creature mostruose – ci sono, ma giocano una parte assai esigua: sono più che altro lo sfondo magico per mettere in scena quella che, di fatto, non è altro che un’altra grande epopea sul Potere. Più simile a I Soprano che a Il Signore degli anelli. Ed è tra l’altro su questo parallelo che si è basata la campagna mediatica per lanciare la serie, diventata in questi anni il più grande successo del canale, con più di 13 milioni di spettatori a episodio.
Ora sta per ripartire in Italia, quasi in contemporanea con gli States, la quarta stagione (prende il via il 9 aprile su Sky Atlantic alle 23). Ma c’è anche la terza stagione in dvd edita da Warner in uscita, assieme al nuovo libro di Martin, Il cavaliere dei sette regni, un prequel delle Cronache, pubblicato come tutti gli altri da Mondadori. Un fenomeno inarrestabile, come anche le critiche che accusano la serie di essere violentissima.
«Ma è il potere stesso a essere violento» dice Aidan Gillen (interpreta il mellifluo Littlefinger proprietario del bordello più famoso de Il Trono) che abbiamo incontrato a Londra con una parte del cast. «Questa è una serie in cui essere buoni o essere dei leader non garantisce che si arrivi alla fine dei giochi. Esattamente come nella vita reale».
Ogni vita è appesa a un filo. Anche quella di un re, quel Ned Stark protagonista della prima stagione che Joffrey fa decapitare sotto gli occhi delle figlie, con l’accusa, falsa, di tradimento. Fosse un fantasy qualunque, si troverebbero mille modi per farlo sopravvivere. «La cosa per cui si ama questa serie» aggiunge Liam Cunningham, che interpreta Davos uno dei cavalieri «è l’assoluta imprevedibilità degli eventi. Tutti possono morire ». Il che dà alla vicenda un tono più letterario che televisivo. E poi c’è il sesso! E quanto! E che amplessi sofisticati, e che perversioni ardite mostrano certe scene, molto vicine a quei soft classy porno che girano in rete. E anche per questo Il Trono ha acceso focose polemiche. Anzi, grazie alla serie è stato coniato il termine di sexposition (nel 2011 dal blogger Myles McNutt) per spiegare tutti quei momenti di alto tasso dialettico che spesso condiscono le perversioni di re, lord e cavalieri. Si richiede una fellatio e intanto si ragiona sul senso del potere, con retorica elaborata e parimenti spietata. Campioni del genere sono Littlefinger e Tyron, il nano malefico, arguto e colto della dinastia dei Lannister. E comunque, non facevano così anche i mafiosi di David Chase negli strip Club, senza che nessuno si sentisse offeso nell’intelligenza?
Infine, ci sono le donne. E che donne. Le più pericolose serpi del globo terracqueo. Mai vittime, semmai maschili nella gestione del potere. Come Daenerys Targaryen (interpretata da Emilia Clarke) della stirpe dei Draghi (anche lei in lotta per il trono), che grazie alla magia del sesso si scopre leader e diventa – per dirla con Nikolaj Coster-Waldau che intrepreta il bifido Jamie Lannister – «una delle tante donne pericolose di questa serie. Del resto non puoi avere un alto tasso di violenza e sesso senza avere anche donne così dannatamente pericolose». Tutte a modo loro delle protofemministe, come scrive Daniel Mendelsohn sulla New York Review of Book. Ne ha subito fatto tesoro anche Madonna, che ultimamente ha postato su Istagram una foto in cui, vestita da Daenerys, tiene sulla spalla come la regina de Il Trono i suoi piccoli e potenti draghetti.