Paolo Mauri, il Venerdì 4/4/2014, 4 aprile 2014
QUEI NOVANT’ANNI PIENI DI VITA DI UN GIORNALISTA FELICE E CONOSCIUTO
Esce, a specchio di un compleanno importante (i novant’anni), il Racconto autobiografico di Eugenio Scalfari, già apparso nel Meridiano a lui dedicato e ora, in una coedizione Repubblica, l’Espresso ed Einaudi, in volume autonomo in vendita in edicola e in libreria. C’è dentro la storia dell’Espresso e di Repubblica e, inevitabilmente, la storia recente del nostro Paese con i suoi protagonisti principali, da La Malfa a Berlinguer, da Andreotti a Moro, da Craxi a Berlusconi. E c’è la storia del giornalismo cresciuto nel solco del Mondo di Pannunzio e di un’ opinione pubblica che a sua volta cresce in quella dimensione liberaldemocratica. L’Espresso formato lenzuolo ci ricorda l’inchiesta sul piano Solo del generale De Lorenzo, la nascita della neoavanguardia, il passaggio al colore, la collaborazione di Guido Carli che firmava Bancor… Poi, la nascita di Repubblica con la scelta di un formato nuovissimo per la stampa italiana, il terrorismo, la prigionia di Moro e il partito della fermezza, il successo che consente di raggiungere e superare il Corriere, la morte di Berlinguer…
Troppi sono i particolari per poterli riassumere qui. Il Racconto riprende molti altri ricordi e illumina anche le zone segrete di una vita «non serena, ma fortunata e felice» (parole di Scalfari stesso). Si comincia dalla nascita a Civitavecchia, il 6 aprile 1924, descrivendo il palazzo in cui la famiglia abitava e la piazza in cui sorgeva, tra il municipio e la cattedrale, proprio di fronte al porto dove facevano scalo i postali per la Sardegna. Una casa tutto sommato modesta, anche se aveva i soffitti affrescati, ma è la casa della prima infanzia, delle soste sul balcone con la madre, dei primi sguardi sul mondo di un bambino. Scalfari dice a un certo punto che gli piacerebbe scrivere un libro sulle case abitate nel corso della sua vita: questa di Civitavecchia, per cominciare, ma poi le diverse case romane, la casa di Sanremo e il palazzo dei nonni paterni in Calabria, dove la famiglia si rifugiò nell’immediato dopoguerra.
A Roma, aveva fatto il ginnasio ricevendo inevitabilmente l’educazione fascista che il regime curava in modo particolare . «Ero balilla moschettiere, un corpo scelto… la divisa era il nostro orgoglio». E a Roma avrebbe frequentato l’Università scrivendo sui giornali del Guf articoli non ortodossi che gli valsero l’espulsione dopo un «vivace colloquio» con il vicesegretario nazionale del partito Carlo Scorza. Dietro quel «vivace» c’era stata una specie di aggressione fisica, ma su questo l’autore non si sofferma.
Torniamo indietro di qualche anno, a Sanremo. Il padre di Scalfari era stato chiamato nella cittadina ligure a dirigere il Casinò e lì il giovane Eugenio aveva frequentato il liceo dove, come ormai tutti sanno, aveva avuto per compagno di banco Italo Calvino. Quello che non tutti sanno, invece, e che viene ricordato in queste pagine è che, profittando dei racconti paterni, il ragazzo si era fatta una bella cultura sul gioco d’azzardo e sui giocatori, nonché su tutto quello che succedeva, nel bene e nel male, in una casa da gioco. Qualche tempo dopo, quando il padre fu incaricato di trovare del personale per i Casinò italiani che aprivano o riaprivano dopo la guerra, il giovane Eugenio si offrì di andare a dirigere il casinò di Chianciano e, alla perplessità paterna, oppose una preparazione più che adeguata. E chiese che gli facessero un guardaroba ad hoc: due smoking, uno nero e uno bianco, e anche il dinner jacket. «Ma lo portano i camerieri», obiettò il padre. «Non ti preoccupare, o il dinner o non vado». Furono pochi mesi, quelli a Chianciano, di felice vacanza.
I dodici mesi passati in Calabria subito dopo la guerra, una scelta dovuta a necessità economiche furono invece una full immersion in quella cultura ancora arcaica, con i suoi valori e i suoi riti, il dialetto… Era la terra degli avi, dunque il confronto era profondo. Gli Scalfari avevano un centinaio di ettari impiantati in gran parte a uliveto. Si imparava a stimare il carico di olive di un albero prima della raccolta. Le mafie, che allora era ancora marginali in Calabria, avrebbero poi spadroneggiato: in pochi decenni quelle terre erano diventate irriconoscibili.
La vera passione di Scalfari era però la scrittura. «Pannunzio e Benedetti furono i miei maestri. Dico meglio: i miei padri di giornalismo e politica », scrive accingendosi a ripercorrere gli anni della collaborazione al Mondo e la vicinanza alla sinistra liberale. Arrigo Benedetti per tre settimane bocciò l’articolo di economia che gli aveva consegnato: «Non ho capito niente », diceva. E da lì Scalfari imparò a raccontare le vicende economiche con un linguaggio senza tecnicismi , inaugurando una nuova branca del giornalismo.
Assunto dalla Banca Nazionale del Lavoro, su segnalazione dell’Università, dopo una laurea brillante, Scalfari si trasferì a Milano. C’erano tutte le premesse perché potesse fare una grande carriera, ma due articoli fortemente critici sull’operato della Federconsorzi (cliente di primaria importanza della Bnl) gli valsero una richiesta di licenziamento da parte di Paolo Bonomi, presidente della Federconsorzi, che lui accusava di comprare grano e riso a prezzi superiori a quelli di mercato per ragioni politiche e di rivenderli scaricando sul Tesoro la perdita subìta. Nel terzo articolo sulla questione, Scalfari spiegò anche che Bonomi aveva preteso il suo licenziamento e naturalmente la cosa non passò inosservata.
Prima di lasciare Milano, ormai deciso a passare al giornalismo, Scalfari andò a trovare Raffaele Mattioli. Il racconto della visita a Mattioli è un pezzo da antologia. Mattioli, banchiere e umanista (a lui si deve gran parte dell’attività della casa editrice Ricciardi) teneva salotto nel suo ufficio alla Comit, in piazza della Scala. Ci andavano intellettuali, politici e naturalmente banchieri ed economisti (tra gli altri, Adolfo Tino, Franco Cingano, Leo Valiani, Sergio Solmi e in visita da Roma, Ugo la Malfa, Bruno Visentini, Elena Croce). Quella volta Scalfari chiede però di essere ricevuto da solo. «Devi avere un cazzo di problema per volermi vedere da solo» esordì Mattioli che usava un linguaggio spiccio. Scalfari gli annunciava che avrebbe lasciato Milano per tornare a Roma e fondare un giornale: l’idea era quella di un quotidiano che però arrivò, come si sa, solo molti anni dopo, mentre di lì a non molto nacque l’Espresso. Mattioli si offre di aiutare economicamente il giovane amico, ma non ce n’è bisogno. L’Espresso nacque anche grazie ad Adriano Olivetti che sostenne l’iniziativa di Scalfari e Carlo Caracciolo. Se si fosse messo d’accordo con Enrico Mattei (l’ipotesi fu esplorata) forse Repubblica sarebbe nata prima.
Nel ’96 lasciata la direzione a Ezio Mauro, Scalfari, oltre a scrivere l’editoriale della domenica per Repubblica, si è dedicato alla sua vicenda interiore e intellettuale e ha scritto, in forme diverse, molti libri di grande successo: per ultimo, quello del dialogo con Papa Francesco.
Direbbero i francesi, traducendo la sua età (a proposito, auguri!), che Scalfari, oltre ai dieci anni dell’infanzia, ha avuto quattro volte vent’anni. Lì forse sta il segreto della vita «fortunata e felice», fonte, tra tanti libri, di un racconto inesauribile.