Antonio Corbo, il Venerdì 4/4/2014, 4 aprile 2014
QUESTA DI MARINELLA È LA STORIA VERA
[Maurizio Marinella]
NAPOLI. Il negozio che apre il 26 giugno 1914 non piace alla città. Angusto, vetrine con cristalli ricurvi, marmo grigio malinconico, scuro il mogano degli scaffali. «Sembra una farmacia di paese», severi i primi giudizi. Ma li corregge subito Matilde Serao, nella sua rubrica Mosconi. «Il magazzino del Marinella è quanto di più inglese si possa immaginare ». La scrittrice fa opinione, sarà la prima donna italiana a dirigere un quotidiano. Altra fortuna: quel giorno, 29 giugno, Il Mattino vende più copie che mai. Nel titolo di prima pagina c’è il lampo che annuncia la Grande Guerra. A nove colonne: L’erede del trono d’Austria è stato ucciso. Riferisce l’attentato di Sarajevo: l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia in visita alla capitale bosniaca. In tanti leggono così anche la notizia del «negozio inglese» di Eugenio Marinella moda maschile non solo cravatte. Arrivano dalla provincia a vederlo, Napoli cambia idea.
È tutto come allora. Riviera di Chiaia 287/A, angolo piazza Vittoria. Il verde gentile della Villa Comunale ripara da libeccio e maestrale. In soli venti metri quadri sono passati miliardi di lire e un secolo di cravatte. «È un miracolo che ricomincia ogni mattina alle 6.30», dice Maurizio Marinella, unico figlio maschio di Luigi detto Gino, nipote di Eugenio, il fondatore di una bottega che sembrava «una farmacia di paese» ed è oggi una bella storia della moda italiana. Una griffe che non cambierà bandiera. Il 26 giugno Marinella compie cento anni. Festa e museo a Palazzo Reale, 1.300 invitati, 600 stranieri, dai coreani agli olandesi, concerto al San Carlo. Per Napoli è l’evento dell’anno.
Un negozio di moda che apre alle 6.30. Marinella, ha fretta di incassare?
«In cento anni la mia famiglia ha avuto più debiti che crediti. Avete scritto voi giornalisti che rifiutai cento miliardi di lire nel 2001 da un gruppo olandese. Indiani, francesi, inglesi, giapponesi, americani fanno ancora offerte. Qualcuno mi dice: ma allora giochi al rialzo? Difficile convincerli. Sono due i discorsi che porto dentro. Mio padre nei momenti critici mi diceva: “Il primo piatto è sicuro, il secondo è incerto. Quindi: andiamo avanti così”. A 88 anni, prima di morire, il nonno fu chiaro. “Maurizio, ora tocca a te dimostrare che si possono fare cose importanti anche a Napoli. Senza partire. Hai capito, Maurizio?” Marinella è la napoletanità vincente, dovrà essere sempre così».
Una città in decadenza, e la moda che tira. Non solo con le cravatte.
«Non c’è solo Marinella, è vero. Il primato della sartoria è indiscusso. Ci vuol coraggio. Guidare un’azienda in Italia è complicato. A Napoli di più, significa lottare ai confini della realtà. Ecco perché parlo di miracolo. Ma sono i clienti a darci la forza. Quando vado fuori e dico di essere Marinella, vedo negli occhi una luce nuova. A chi viene a Napoli si chiede di portare al ritorno una cravatta, di qualsiasi colore, basta che sia di Marinella. Cinque anni fa Klaus Davi Comunicazione ha fatto un sondaggio. “Che vi viene in mente alla parola Napoli?” Hanno risposto, nell’ordine: Maradona, poi Totò, Marinella, San Gennaro, Bassolino, Pino Daniele, Massimo Troisi... Marinella prima di San Gennaro, pazzesco. Un’ emozione che ci ripaga di tutto. I soldi non contano».
(La storia dei Marinella comincia con un viaggio all’estero dopo un flop nel commercio. Primo ‘900. Eugenio vende accessori, come bastoni, ombrelli, bretelle. Con due soci: Morziello che fa camicie, Serafini abiti. Gli affari vanno male. Addio società).
Marinella, qual è la vera storia?
«Mio nonno era un tipo sveglio. Riparte da un’idea: per le donne conta la moda francese, per gli uomini quella inglese. Parte per Londra in nave, giorni e giorni di mare. Prende contatti con tutte la grandi firme dell’epoca. Crea un piccolo angolo di moda inglese, che Roma e Milano si sognano. Aquascutum per gli abiti, i profumi di Penhalingon’s, gli ombrelli di Brigg, i maglioni di Braemer. Il posto diventa l’ideale per un incontro nella Belle époque. I giovani venivano nel negozio, la belle ragazze della nobiltà passavano di fronte, vede la Villa Comunale? C’era il trottoir, andavano a cavallo. Faceva da richiamo Marcello Orilia, un viveur conteso da salotti e belle donne, abitava vicino, a Palazzo Arlotta. Mio nonno aveva una sola idea: roba rara, di qualità».
Non solo cravatte, quindi.
«Andavano frac, tight, smoking. Le camicie con colli inamidati. Per questo il nonno assunse tre stiratrici francesi. Bastoni, bretelle, profuni. La cravatta è esplosa alla fine. Vendevamo per il 60 per cento prodotti esteri. Quando fu vietato, prima della II Guerra, mio nonno chiuse il negozio per non vendere solo moda italiana. Una sfida vinta».
Che parte ha suo padre, Luigi detto Gino?
«Fondamentale. Sapeva accogliere il cliente».
Maurizio Marinella, 58 anni, erede di una grande storia commerciale e familiare, soffre nel raccontare la sua. È la confessione di lunga solitudine. Bisogna forzare le sue ritrosie.
Suo nonno, suo padre, e lei?
«Sono venuto al mondo per proseguire questa attività. Tra me e mio padre c’erano 50 anni di differenza. Ne avevo otto, alla fine del pranzo, una domenica, il nonno mi mise una mano sulla spalla. Mi portò in un’altra stanza per non far sentire alle donne. “Da domani vieni con noi, devi prendere l’aria del negozio”. Ho pianto. Non potevo parlare, ma solo rispondere. Davo la mano solo se un cliente me la dava. Guardare e imparare. Terribile è stato. A 12 anni giravo per le consegne, non dicevo che ero uno dei Marinella, prendevo le mance, e quei soldi mi consolavano un po’. A 16 anni la svolta. C’era un rappresentante, papà e il nonno ordinavano solo golf blu, marrone, bordeaux, verde inglese. Mi inserii. Prendiamo pure azzurri e gialli. Mi guardarono male, ma dissero sì. Gli azzurri e i gialli andarono esauriti per primi. Non mi hanno mai fatto un elogio ma qualcosa cambiò. Andai all’università, Economia e Commercio, e mio padre mi tolse la parola. “Vai solo a perdere tempo”. Ho studiato in negozio, ci son voluti 14 anni per laurearmi. Mi ha aiutato la pallanuoto, serie A, mi ha dato forza. Coraggio. Carattere».
Eppure c’è tanto di suo, nel successo di Marinella.
«A 18 anni chiesi di girare. Conobbi gente importante che è la nostra clientela, oggi. Telefonai a Pietro Barilla per un incontro. Ricordo l’indirizzo. Villa Barilla, viale Barilla, Parma... Ordinò 70 cravatte, temeva fossero poche e mi riempì la 850 Fiat di sughi, biscotti e pasta. Sono tornato da lui una volta al mese, di mercoledì. Persona stupenda. Come Gianni Agnelli che mi chiamò a Torino. Con una cortesia infinita, mi chiese di allestire la vendita di cravatte, un’ora solo, dopo i consigli di amministrazione. Un pensiero gentile per i dirigenti Fiat. Nello studio di Andreotti ho poi conosciuto Francesco Cossiga, da presidente regalava un cofanetto con sei cravatte ai Capi di Stato. Sono diventati così nostri clienti Kennedy, Bush padre e figlio, Khol, Schroeder. Clinton dopo il G7 di Napoli mi ha scritto una bellissima lettera. Tra i politici italiani, Craxi, D’Alema, Berlusconi che prendeva 300 cravatte al mese quando era premier. Non siamo mai riusciti a regalare una cravatta ai presidenti italiani. Da De Nicola a Napolitano, ci hanno consentito solo un piccolo sconto. È passata di qua un’Italia stupenda. Ricordo Eduardo, magro, aveva sempre freddo. De Sica, Mastroianni, il più elegante è stato Totò».
Marinella ha un suo stile anche nella vendita. Apre alle 6.30, arrivano le prime telefonate. Quando manca mezz’ora alla chiusura della Borsa di Tokyo e mentre cenano i vip nei locali di Manhattan. Marinella è a malapena uscito da questi venti metri quadri, riceve gli stranieri anche al piano superiore, con ragazze giapponesi. Ma niente commercio online, è assente nei corner degli aeroporti, vende solo poche cravatte per volta. Mai chiederne più di dieci, dodici per evitare che altri clienti non le trovino.
Una vendita così strana è il segreto del successo?
«La cortesia è massima. Alle 6.30 arrivano i traghetti da Palermo, sbarcano almeno 400 siciliani. Molti, prima che la città riapra, passano da noi. Si sentono amici, e lo sono. Trovare sfogliatine, caffè, qualcuno porta i cannoli, poi arrivano col primo aereo dal Nord, parliamo, mangiamo, un clima quasi da club. La vendita è il mio ultimo pensiero. Alle 8.30 comincia a entrare gente che ha fretta, e tutto diventa più noioso. Il mio negozio è quello del 6.30. Fui invitato alla Bocconi, parlai di questo, i professori lasciarono andar via gli studenti, erano perplessi. “Noi insegniamo tutto il contrario”. Dissi loro di non preoccuparsi. Marinella è un miracolo».
Un solo figlio, Alessandro, di 19 anni. «Tatta» la sua prima parola. Intendeva cravatta. Ma non si è mai visto, qui.
«Ho voluto per lui una vita diversa. Libera. Poi, chissà. Cento anni sono un punto di partenza, non di arrivo. Noi non cambieremo, ma ho un progetto internazionale. Lasciatemi regalare prima un grande evento a Napoli».
Marinella vuol dire Napoli. Nel 2008 Gianni De Gennaro, allora commissario all’emergenza rifiuti, sventò la chiusura del negozio. «È come dichiarare il lutto cittadino ». Lei si arrese. Ora prepara la Festa dei cento anni come evento da regalare alla città. Il legame è forte. Perché ha rifiutato più volte di candidarsi sindaco?
«Non ero pronto».