Elizabeth Hellmuth Margulis, Internazionale 4/4/2014, 4 aprile 2014
LA STESSA CANZONE
Cos’è la musica? La lista dei filosofi che si sono fatti questa domanda è infinita, ma la maggior parte delle persone si limita a dire: “Quando l’ascolto, lo so”. Eppure è noto che i nostri giudizi sulla musicalità dei suoni cambiano con facilità. Un nuovo pezzo che ci sembrava fastidioso, dopo averlo ascoltato più volte può diventare piacevole da tamburellare con le dita. Mettete una persona indifferente alla musica in una casa dove qualcuno sta ascoltando un concerto di musica contemporanea, e alla fine fischietterà György Ligeti. La semplice ripetizione fa miracoli. Invece di chiederci cos’è la musica, faremmo meglio a domandarci: “Cosa percepiamo come musica?”.
Almeno dagli anni sessanta, quando Robert Zajonc dimostrò per la prima volta l’importanza del “semplice effetto esposizione”, gli psicologi hanno capito che la gente preferisce cose che ha già sperimentato. Che siano triangoli, immagini o melodie, le persone affermano che gli sono piaciuti dopo averli visti o ascoltati due o tre volte, anche se non se lo ricordano. Sembrano attribuire la loro maggiore capacità di percepire un oggetto non a un’esperienza precedente, ma a una qualità insita nell’oggetto stesso. Invece di pensare: “Ho già visto questo triangolo, quindi lo riconosco”, pensano: “Accidenti, mi piace questo triangolo. Mi fa sentire più intelligente”. L’effetto si estende anche all’ascolto della musica. Ma in questo campo il ruolo della ripetizione va oltre il semplice effetto’esposizione. Tanto per cominciare, è un fenomeno comune: tutte le culture del mondo producono musica ripetitiva. L’etnomusicologo Bruno Nettl, dell’università dell’Illinois, considera la ripetitività una delle poche caratteristiche universali della musica. Nelle canzoni di maggiore successo c’è spesso un ritornello che si ripete, e questi pezzi già ripetitivi vengono ascoltati diverse volte.
Il musicologo David Huron, dell’Ohio state university, ha calcolato che per più del 90 per cento del tempo che trascorriamo ad ascoltare musica, sentiamo pezzi che abbiamo già ascoltato. Il numero di ascolti che registra iTunes rivela la frequenza con cui scegliamo certi brani. E i motivi sui quali ci fissiamo ci tornano in mente di continuo. La ripetitività è la caratteristica più diffusa della musica, reale o immaginata.
Anzi, la ripetizione è così legata alla musicalità che può trasformare sequenze di suoni apparentemente non musicali in canzoni. La psicologa Diana Deutsch, dell’università della California a San Diego, ha scoperto un esempio particolarmente interessante del fenomeno: l’illusione del parlato che diventa musica. L’esperimento parte da una frase normale: “I suoni come li percepiamo non solo sono diversi da quelli reali, ma a volte si comportano in modo così strano da sembrare quasi impossibili”. Poi, una sequenza di questa frase – “a volte si comportano in modo così strano” – viene ripetuta varie volte. Alla fine la registrazione originaria viene pronunciata di nuovo per intero. Quando si arriva alla sequenza che era stata ripetuta, l’impressione è che chi parla si sia messo a cantare, come nei cartoni della Disney (per fare l’esperimento: intern.az/ifJs5B6).
Ascoltare una persona che parla e una che canta sembrerebbero due esperienze completamente diverse, che si differenziano per le caratteristiche obiettive del suono stesso. Ma l’illusione del parlato che diventa musica ci rivela che la stessa sequenza di suoni può sembrarci parlato o musica a seconda che venga ripetuta o meno. La ripetizione modifica il nostro circuito percettivo tanto da trasformare la sequenza in musica: abbiamo la sensazione che le parole siano cantate.
Quest’illusione dimostra cosa significa sentire musicalmente qualcosa. La “musicalizzazione” sposta l’attenzione dal significato delle parole alla curva sonora della frase (l’alternanza di suoni alti e bassi) e al suo ritmo (l’alternanza di suoni lunghi e brevi), e ci stimola a canticchiare o a tamburellare con le dita. In realtà, ascoltare musicalmente significa partecipare mentalmente. Quando sono percepite come musica, le parole “a volte si comportano” della registrazione di Deutsch si tirano inevitabilmente dietro “in modo così strano”. Se ascoltate la prima parte, non potrete resistere alla tentazione di completare la sequenza. Quando sentite qualcosa come musica, non solo l’ascoltate ma la seguite. La ripetizione è il motivo principale dell’aspetto partecipativo della musica. Anche il laboratorio che dirigo all’università dell’Arkansas ha condotto una ricerca simile usando alcuni esempi di rondò, un tipo di composizione musicale ripetitiva, popolare alla fine del settecento. Le persone che ascoltavano rondò caratterizzati dalla ripetizione battevano il tempo o canticchiavano più delle persone che ascoltavano brani meno ripetitivi. E tutto sommato i rondò classici non offrono al pubblico molta possibilità di partecipare. Le situazioni musicali che richiedono espressamente un coinvolgimento sono ancora più ripetitive: pensate al numero di volte che in chiesa, durante il salmo responsoriale, i fedeli sono invitati a ripetere una frase. Perfino nelle situazioni musicali che non prevedono la partecipazione (come quando si ascolta la radio guidando), le persone si lasciano coinvolgere a vari livelli, dal semplice dondolarsi al cantare a squarciagola.
Può esistere la musica senza ripetizione? Non è un oggetto naturale e i compositori non sono tenuti a rispettare dei requisiti. Anzi, nell’ultimo secolo alcuni compositori hanno cominciato a evitare di proposito la ripetitività. Durante un recente studio condotto al Music cognition lab, abbiamo fatto ascoltare ai partecipanti dei campioni di questo tipo di musica, scritti da famosi compositori del novecento come Luciano Berio ed Elliott Carter. All’insaputa dei partecipanti, certi brani erano stati modificati al computer. Alcuni segmenti, scelti per comodità e non per motivi artistici, erano stati copiati e reinseriti. I brani modificati differivano dagli originali solo perché contenevano una ripetizione. In teoria, dovevano risultare abbastanza sgradevoli. Gli originali erano stati scritti da alcuni dei compositori più famosi del secolo scorso, mentre le versioni alterate erano state messe insieme senza pensare al risultato estetico. Ma i partecipanti, tutti studenti universitari senza conoscenze particolari della musica sinfonica contemporanea, le trovavano più piacevoli, più interessanti e ritenevano più probabile che fossero state scritte da un essere umano invece che generate a caso da un computer.
Nel 2011 ho presentato i risultati di questo studio al convegno annuale della Society for music theory. Il pubblico conosceva bene il repertorio, ma alcuni tra i presenti hanno osservato che anche a loro le versioni create al computer sembravano convincenti, pur sapendo che si trattava di brani manipolati. Ovviamente questo studio non riguarda gli esperti di Berio e Carter, ma rivela qualcosa sul modo in cui chi ascolta dà un senso a un brano musicale che sente per la prima volta. La ripetizione è indice di intenzionalità. Una frase musicale che al primo ascolto può sembrare arbitraria, la seconda volta dà l’impressione di essere voluta e significativa.
Unione trascendente
In un altro studio abbiamo cercato di verificare se la ripetizione può rendere più orecchiabili piccoli frammenti di musica. Abbiamo generato sequenze casuali di note e le abbiamo fatte ascoltare ai partecipanti in due modi diversi: senza o con la ripetizione. Nel secondo caso, la sequenza casuale si ripeteva sei volte. All’inizio dello studio le persone ascoltavano le sequenze, che partivano automaticamente una dopo l’altra. Alcune erano nella forma originale, altre erano ripetute (l’ordine degli ascolti variava da un partecipante all’altro). Poi i partecipanti sentivano tutte le sequenze casuali individualmente – solo una volta, senza ripetizioni – e dovevano dire quanto le consideravano musicali.
Avevano sentito abbastanza sequenze da confonderle. Non ricordavano di preciso quali segmenti avevano sentito più volte, e neanche se li avevano già sentiti. Ma trovavano sempre più musicali le serie che avevano sentito in forma ripetuta. Anche senza l’aiuto della memoria, la ripetizione aveva conferito alle sequenze casuali una maggiore musicalità. Che si tratti di sillabe o di note, sembra che la ripetizione sia sufficiente a rendere musicale qualsiasi sequenza di suoni, modificando il modo in cui la sentiamo.
Per avere un’idea di come funziona questo processo, provate un semplice esperimento. Chiedete a un amico di scegliere una parola – per esempio, leccalecca – e di continuare a pronunciarla per un paio di minuti. Ascoltandolo, vi accorgerete che poco a poco separerete i suoni dal loro significato. Questo effetto si chiama sazietà semantica, ed è stato documentato più di cento anni fa. Mano a mano che il significato della parola si perde, certi aspetti del suono, una specifica pronuncia o la ripetizione della lettera elle, diventano stranamente importanti. Il semplice atto della ripetizione produce un nuovo tipo di ascolto, una maggiore consapevolezza delle qualità sensoriali della parola.
Probabilmente gli antropologi non ci trovano nulla di strano, perché ormai è noto che anche i rituali – alcune sequenze di azioni stereotipate, come il lavaggio cerimoniale di una tazza – sfruttano il potere della ripetizione per permettere alla mente di concentrarsi sui dettagli sensoriali immediati piuttosto che su considerazioni pratiche più generali. Nel caso del lavaggio della tazza, per esempio, la ripetizione lascia chiaramente intendere che quel gesto non ha solo uno scopo pratico: l’obiettivo di chi lo fa non è quello di pulirla ma di attirare l’attenzione sul gesto stesso.
Nel 2008 gli psicologi Pascal Boyer e Pierre Liénard, della Washington university a St Louis, sono arrivati ad affermare che un rituale provoca un preciso stato dell’attenzione in cui consideriamo le azioni a un livello molto più basilare del solito. Al di fuori dei rituali, di solito i singoli gesti non sono interpretati isolatamente, rientrano nella nostra comprensione generale del flusso degli eventi. Il rituale sposta l’attenzione dallo schema generale di un evento ai singoli gesti che lo compongono. Invece di vedere solo qualcuno che sta pulendo una tazza, chi è presente a un rituale può notare l’accelerazione della mano intorno al bordo o il modo in cui il panno si raccoglie e poi si apre di nuovo mentre viene passato sulla superficie. Inoltre, la ripetizione dei gesti rende più difficile resistere alla tentazione d’imitarli mentalmente, di pensare all’effetto che farebbe muovere la mano nello stesso modo.
La ripetizione in musica funziona nello stesso modo: rende gli elementi espressivi e sfumati del suono sempre più fruibili e la spinta a partecipare – a muoversi al suo ritmo o a cantare più irresistibile che mai.
Non dovremmo sorprenderci del fatto che molti rituali usano la musica e che la musica è un potente mezzo per aprire la mente. Lo psicologo svedese Alf Gabrielsson ha chiesto a migliaia di persone di descrivere la loro esperienza musicale più significativa e ha analizzato le loro risposte per individuare possibili temi comuni. Molti hanno risposto che l’esperienza musicale più importante della loro vita gli aveva provocato un senso di trascendenza e di assenza di confini, e la sensazione di poter sfuggire ai limiti del corpo per diventare tutt’uno con i suoni che stavano ascoltando. Esperienze così profonde e toccanti possono dipendere in parte dallo spostamento dell’attenzione e dal coinvolgimento provocato dalla ripetizione. Anzi, lo psicologo Carlos Pereira e i suoi colleghi dell’università di Helsinki hanno dimostrato che le regioni emotive del cervello sono più attive quando la musica che ascoltiamo ci è familiare.
Perfino l’ascolto ripetuto di un brano che non rientra nelle nostre preferenze musicali è molto potente. Per questo alcuni brani che odiamo, ma abbiamo sentito tante volte, ci prendono contro la nostra volontà e li canticchiamo sull’autobus. L’esposizione ripetuta fa sembrare un suono legato a quello successivo. Appena sentiamo “Yesterday”, ci viene in mente “all my troubles seemed so far away”. Nel parlato ci sono poche espressioni in cui una parte è così inevitabilmente legata all’altra. E se vogliamo memorizzare una lista, spesso la canticchiamo e la ripetiamo molte volte. Quando ogni suono dà la sensazione di essere legato all’altro, sembra di ascoltare una musica. E la ripetizione intensifica quest’effetto.
Si può trasformare qualsiasi cosa in musica, semplicemente ripetendola? No, nel suono c’è qualcosa di speciale. I risultati dei pochi studi che hanno trasferito caratteristiche come il ritmo, la ripetizione e la periodicità a sfere diverse da quella uditiva – per esempio, le luci lampeggianti – fanno pensare che gli specifici processi mentali associati alla musica siano più difficili da attivare quando il materiale di base non è sonoro.
Non tutti gli aspetti della musica hanno bisogno di essere resi più interessanti dalla ripetizione. Una singola nota di violino può suonare musicale anche senza ausili particolari. La ripetizione non spiega perché un accordo minore ci sembra cupo o uno diminuito sinistro, ma forse spiega perché una serie di questi accordi ci sembra inevitabile e trascinante. Percorrendo e ripercorrendo lo stesso sentiero nello spazio musicale, la ripetizione fa apparire una sequenza di suoni meno simile a un’obiettiva presentazione di contenuti e più simile a una specie di corda che ci trascina. Attiva un circuito che ci fa sentire la musica come qualcosa che facciamo, non che percepiamo. Anche il senso d’identificazione che proviamo con la musica, e che nella nostra mente fa parte integrante della sua definizione, deve molto all’esposizione ripetuta.
La predominanza della ripetizione nella musica di tutto il mondo non è casuale. La musica non ha acquisito la caratteristica della ripetitività perché è meno sofisticata del parlato. E quando iTunes dice che avete ascoltato 347 volte il vostro album preferito non significa che siete maniaci compulsivi, è solo la prova della magia della musica.
La ripetitività provoca l’ascolto che definiamo musicale. Scava un solco familiare e gratificante nella mente, permettendoci di anticipare e di partecipare a ogni frase che ascoltiamo. È proprio l’esperienza di essere trascinati dalla musica a creare il senso di soggettività condivisa con il suono e, quando non la sentiamo in cuffia, con gli altri. Un’unione trascendente che dura almeno il tempo della nostra canzone preferita.
L’AUTRICE
Elizabeth Hellmuth Margulis dirige il Music cognition lab dell’università dell’Arkansas. Ha scritto On repeat: how music plays the mind (Oxford university press 2013).