Jason Burke, Internazionale 4/4/2014, 4 aprile 2014
L’INDIA CERCA L’UOMO FORTE
Narenda Damodar Das Modi avanza a grandi passi verso il podio. Un migliaio di persone sta ancora attraversando l’area intorno al luogo del comizio. Altre decine di migliaia di persone affollano la strada che parte dai campi dove sono stati parcheggiati a casaccio centinaia di autobus. Un chilometro più in là ci sono file di furgoncini bloccati sull’autostrada e pieni di gente. Non c’è più spazio nelle grandi recinzioni di bambù davanti al palco allestito in questa landa desolata alla periferia della città di Meerut, nel nord dell’India. La polizia e i militanti del Bharatiya janata party (Bjp, Partito del popolo indiano) stanno mandando via gli ultimi arrivati. Ma solo nelle prime file lo sanno e chi sta dietro affretta il passo non appena sente la voce dell’uomo che ha attirato qui tutta questa gente. A differenza degli altri politici indiani, Modi è puntuale. I suoi comizi cominciano e finiscono con ritardi minimi.
“Mentre volavo con l’elicottero era come se ai miei piedi ci fosse un mare di zafferano”, dice alla folla. Il giallo zafferano è il colore del Bjp, il partito per cui Modi si è candidato alle elezioni che cominciano il 7 aprile, oltre che un importante simbolo dell’induismo. Urla gutturali di esultanza si alzano dalla folla, composta quasi interamente da uomini. Meerut è una città squallida, conservatrice e poco produttiva circondata da centinaia di paesini squallidi, conservatori e poco produttivi. Ci sono manifestazioni, in India e in tutto il mondo, che trasmettono speranza e fiducia, gioia e felicità. Non è questo il caso. “Chiedo scusa a chi non è riuscito a raggiungere il comizio in tempo”, dice Modi mentre gli ultimi arrivati avanzano sgomitando. Alcuni riescono a scavalcare lo steccato di bambù e a entrare nelle recinzioni affollate. C’è qualche tafferuglio. Gli esponenti del Bjp li spingono fuori. Un poliziotto alza lo sfollagente. Modi rende omaggio ai soldati di Meerut per il loro ruolo nell’ammutinamento del 1857, o guerra di indipendenza, contro i dominatori britannici. Un altro urlo dalla folla.
“In India c’è un leader che vuole far fare un passo avanti al nostro paese”, commenta Sakshan Shukla, 19 anni, che con il fratello è partito presto da Meerut e ha trovato posto davanti al palco. “Un leader onesto, che si preoccupa per noi, che ci proteggerà dalle minacce, che ci renderà forti. Sono venuto a sentire questo leader”.
Una svolta
Parole del genere non sono rare di questi tempi. A partire dal 7 aprile, 800 milioni di elettori indiani avranno sei settimane di tempo per esprimere il loro voto. Anche se spesso in India il processo democratico affonda in una palude di sigle, stavolta è chiaro che per il paese è un momento di svolta.
Narendra Modi, 63 anni, è il favorito, con i sondaggi che lo danno stabilmente davanti a Rahul Gandhi, 43 anni, il rampollo della principale dinastia politica indiana e candidato del partito al potere, il venerabile Congress. Lo scontro tra i due segna una linea di demarcazione netta nello scenario politico indiano. Modi si definisce orgogliosamente un “nazionalista indù” e spinge per una riforma radicale della pericolante economia indiana. Gandhi è fedele ai principi economici progressisti e al pluralismo religioso, retaggio del bisnonno, Jawarharlal Nehru, primo premier della storia del paese. Il Bjp è convinto che Modi, una delle figure più discusse della politica indiana da molti anni a questa parte, possa guidare il partito verso una vittoria netta, anche se gli avversari lo accusano di essere un demagogo e un “fomentatore d’odio”. Dopo una falsa partenza nel 1996, il Bjp è andato al potere per la prima volta due anni dopo ma ha perso le elezioni nel 2004. Adesso gli strateghi del partito pensano di avere l’opportunità di interrompere una volta per tutte l’egemonia decennale del Congress e della dinastia Nehru-Gandhi. Uomo di potere contro outsider, figlio di famiglia bene contro figlio della classe operaia che ha fatto strada, laico contro sospetto fondamentalista: c’è tutto in questa battaglia politica. Alcuni esperti parlano dello scontro più importante da quando l’India ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947.
Modi è nato a Vadnagar, una città piena di polvere e templi nell’odierno stato del Gujarat, India occidentale. La sua famiglia apparteneva alla casta ghanchi, ai ranghi più bassi di una salda gerarchia sociale che ancora oggi definisce lo status delle persone in India. I soldi erano pochi. Da ragazzo Modi dava una mano nella bottega del tè del padre e frequentava una scuola pubblica. Non era uno studente brillante né particolarmente socievole, ma era pignolo, testardo e “ribelle”, scrive il suo biografo, Nilanjan Mukhopadhyay.
La fine degli anni sessanta fu un periodo di grande fermento in India, alle prese con enormi problemi economici e segnata da dure battaglie ideologiche. A dieci anni Modi partecipò a una serie di dibattiti all’aperto organizzati dal Rashtriya swayamsevak sangh (Rss, organizzazione nazionale del volontario), un movimento di estrema destra paramilitare, specchio di un’India nazionalista, tradizionalista e religiosa. Lasciata l’università, diventò un attivista dell’Rss a tempo pieno, un pracharak, dedito a una vita di celibato, astinenza dall’alcol, organizzazione e propaganda, lasciandosi alle spalle, secondo un articolo mai ufficialmente smentito, un matrimonio combinato. Il suo primo incarico fu pulire gli uffici della sede locale, a cui si dedicò con metodo ed efficienza. Lavorò sodo e fece carriera in fretta.
L’Rss, che ha circa 40 milioni di iscritti, era ed è tuttora un movimento molto discusso. Fu dichiarato fuorilegge nel 1948 dopo l’assassinio di Mohandas Gandhi, che venne ucciso da un fanatico indù, e poi di nuovo negli anni settanta durante il periodo dell’Emergenza, la sospensione di due anni della democrazia decisa da Indira Gandhi, la nonna di Rahul. In quel periodo Modi lavorò in clandestinità.
L’Rss fu bandito per la terza volta nel 1992 dopo la distruzione di una moschea nel sito di Ayodhya, nel nord del paese, attaccata da un gruppo di estremisti indù. A quel punto Modi era già passato al Bjp, un partito ideologicamente vicino all’Rss ma distinto organizzativamente. Nel 2001 ha sostituito un candidato interno del partito ed è diventato governatore dello stato del Gujarat.
Amato dagli industriali
Ora che Modi è candidato alla guida del paese, il dibattito su quali lezioni si possano trarre dal suo mandato di dodici anni nel Gujarat si è intensificato. Secondo i suoi sostenitori, i risultati raggiunti al livello statale dimostrano una forte capacità di risolvere i problemi. Modi è riuscito a portare avanti progetti importanti, tra cui la ricostruzione del centro di Ahmedabad, la principale città del Gujarat, e durante il suo governo l’economia dello stato è cresciuta di tre volte. Imprese locali e straniere fanno la fila per investire, la fornitura di energia elettrica è nettamente migliorata e c’è stato un boom delle esportazioni. Grazie a tutto questo, e a una generosa politica di sgravi fiscali, Modi è diventato un politico molto amato dagli industriali. “Se ci fosse stato un Modi a capo del paese, invece della gente che ci siamo dovuti sorbire negli ultimi dieci anni, starei molto meglio, e non solo io”, dice un albergatore dello stato settentrionale del Punjab che, come molte persone intervistate per questo articolo, ha preferito restare anonimo. Il proprietario di un grande network televisivo di New Delhi definisce senza mezzi termini Modi “l’unico uomo in grado di tirarci fuori dalla fossa in cui ci troviamo”.
Le capacità decisionali attribuite a Modi contrastano nettamente con le coalizioni litigiose guidate dal Congress che governano l’India dal 2004. Il rallentamento dell’economia dopo anni di boom, l’inflazione galoppante e gli scandali legati alla corruzione hanno eroso il consenso per i partiti al potere. In un sistema politico dove il sospetto di abuso di potere è sempre dietro l’angolo, nemmeno i più fieri oppositori accusano Modi di perseguire interessi personali, leciti o illeciti.
Tuttavia, anche le critiche sono molte. Sia i presunti risultati economici di Modi sia i suoi rapporti con i cosiddetti capitalisti clientelari sono spesso messi in discussione. Molti sostengono che la crescita nel Gujarat non sia più alta rispetto ad altri stati indiani e che sia molto meno redistribuita. Secondo Amartya Sen, economista vincitore del premio Nobel, i progressi dello stato dal punto di vista economico e sociale sono stati scarsi. Altri sottolineano che mantenere alta la crescita nel Gujarat, uno stato di medie dimensioni con una forte tradizione commerciale e infrastrutture migliori rispetto a gran parte del paese, è più facile che altrove. I risultati di Modi non sono il frutto di capacità amministrative, dice qualcuno, ma di una leadership aggressiva e autoritaria. Nel Gujarat, secondo alcuni giornalisti di Ahmedabad, le intimidazioni hanno ridotto i mezzi d’informazione a zerbino del potere. Modi non è un uomo che costruisce pazientemente il consenso. A quanto pare non gli piace essere messo in discussione.
Scheletri nell’armadio
Ma non sono l’economia o le presunte tendenze dittatoriali a rendere Modi una figura così discussa. È la violenza, e in particolare una rivolta nel Gujarat nel 2002 provocata dalla morte di 59 pellegrini indù in un incendio scoppiato su un treno nella città di Godhra, a maggioranza musulmana. Nel caos che ne seguì ci furono più di mille morti e centinaia di migliaia di sfollati, molti dei quali musulmani. Modi, che al tempo della rivolta aveva appena preso il potere, recentemente si è detto “addolorato” per l’episodio. Ma non si è mai scusato per non aver difeso a dovere le minoranze. Accusato ripetutamente di aver permesso – e addirittura incoraggiato – gli indù istigati dagli estremisti, Modi ha sempre negato ogni addebito ed è uscito pulito da una serie di inchieste giudiziarie. Nel 2012, dopo una sentenza di un tribunale indiano, il Regno Unito ha deciso di mettere fine al boicottaggio nei confronti del leader del Bjp. Due mesi fa gli Stati Uniti hanno fatto lo stesso. Ciò nonostante Modi non riesce ancora a scrollarsi di dosso le polemiche.
I motivi sono molti. L’India è periodicamente attraversata da episodi di violenza, e gli avversari politici, cinicamente o meno, citano sempre la rivolta del 2002 per sottolineare il rischio di un conflitto religioso se Modi vincerà le elezioni. Anche se Modi non è mai stato condannato, osservano, alcuni suoi collaboratori sono finiti in carcere perché coinvolti nella vicenda. Ci sono poi molti cittadini indiani, non solo di fede musulmana, che credono in un’India tollerante, pluralista e progressista e temono che Modi possa spaccare il paese. Altri la pensano diversamente. Per decine, forse centinaia di milioni di indiani, i fatti del 2002 non sollevano dubbi sulla legittimità della scalata al potere di Modi, ma la rafforzano.
Vicino agli estremisti indù
In una scuola gestita dall’Rss vicino al luogo del comizio di Meerut, alla vigilia della manifestazione alcuni militanti si riuniscono per un convegno sull’importanza degli sport tradizionali. Hanno una visione del mondo nazionalista e conservatrice. Episodi come lo stupro di gruppo e l’assassinio di una donna di 23 anni su un autobus a New Delhi nel 2012 sono colpa della “decadenza morale” e della cultura occidentale, dicono, mentre i confini del Bharat, il termine sanscrito che usano per descrivere l’India, dovrebbero comprendere anche l’Afghanistan, il Pakistan, il Tibet, il Bangladesh e la Birmania. Secondo un vecchio militante, l’India ha tre problemi fondamentali: “La corruzione, l’inflazione e i musulmani”. Modi ha la risposta a tutti e tre, dice. Rajendra Agrawal, deputato del Bjp – a Meerut il partito ha 1,4 milioni di elettori –, spiega che quello indù è un messaggio di pace e tolleranza ma che “un giorno l’aggressione islamica dovrà essere affrontata”.
Una domanda cruciale è quanto Modi si sia effettivamente allontanato dalle posizioni oltranziste dell’organizzazione in cui era entrato da bambino. Negli ultimi anni i rapporti tra lui e l’Rss sono stati tesi. L’approccio pragmatico, a favore delle imprese e di respiro globale del candidato del Bjp stride con il tradizionale spirito autarchico del movimento nazionalista. E l’Rss non l’ha certo presa bene quando Modi ha detto che “l’India deve costruire più gabinetti e meno templi”. Secondo Christophe Jaffrelot, politologo esperto di estremismo nell’Asia meridionale, Modi si è effettivamente “emancipato” dagli alti ranghi dell’Rss, che tradizionalmente contano anche più dei notabili del Bjp. Tuttavia, aggiunge, Modi potrebbe benissimo “fare tutto quello che l’Rss vuol fare da anni perché è perfettamente allineato all’ideologia del movimento”. Fino a che punto Modi attuerà questo programma dipende da quanto potere avrà, continua Jaffrelot. E questo a sua volta dipende da quanti seggi prenderà e con quanti partiti dovrà trattare per formare un governo.
Gli strateghi al servizio di Modi e del Bjp sanno che l’Uttar Pradesh, stato settentrionale con una popolazione di quasi 200 milioni di persone che elegge 80 rappresentanti su 545 alla camera bassa, è fondamentale per assicurarsi la maggioranza. Ecco perché Modi è venuto a Meerut, una tipica città dell’Uttar Pradesh con i tipici problemi dell’Uttar Pradesh.
Malgrado sia a soli 80 chilometri da New Delhi, Meerut è una zona di transizione. Chi vive qui conduce un’esistenza sospesa tra città e campagna, vecchia povertà e nuova ricchezza, valori tradizionali e “modernità”, antiche comunità e piaceri individuali, paura e speranza, mancanze e aspirazioni. Girando per le strade di Meerut si capisce che la città è cambiata molto negli ultimi anni ma che quasi tutto è stato lasciato a metà, a parte forse un cavalcavia, un centro commerciale e un nuovo albergo a quattro stelle.
Ovviamente ci sono stati dei progressi. La popolazione, in generale, è meno povera di prima. Il tasso di alfabetizzazione è salito al 75 per cento, anche se negli ultimi dieci anni i passi avanti sono stati più lenti. A causa di una preferenza per i figli maschi, seguita da una discriminazione generalizzata durante la giovinezza e l’età adulta, nel 2011 c’erano ancora 886 donne ogni mille uomini, un lieve miglioramento rispetto al 2001, anno del precedente censimento. La rete elettrica, fognaria e idrica è più capillare rispetto a dieci anni fa, ma ancora insufficiente. La crescita demografica ha rallentato, anche se meno rispetto alle zone più ricche e istruite del paese. In India due terzi della popolazione ha meno di 35 anni. Alle prossime elezioni si presenteranno alle urne 150 milioni di nuovi elettori. A Meerut l’età media è più bassa di quella nazionale. E i posti di lavoro scarseggiano. Ecco spiegato perché si vedono ovunque gruppi di giovani maschi: per le strade, alla fermata dell’autobus, nei dintorni dell’università, davanti all’Hair fixing centre e all’Idea high speed internet store, davanti ai cinema fatiscenti dove i manifesti dell’ultimo blockbuster di Bollywood si staccano dai muri ammuffiti.
Al centro commerciale, aperto solo da tre mesi, gli affari vanno a rilento. Thriller di Michael Jackson rimbomba a tutto volume nei corridoi. Pochi hanno le duemila rupie (circa 23 euro) necessario per comprare un paio di jeans da Numero Uno. Il direttore del negozio, Mukesh Verma, 25 anni, dice che voterà per Modi perché “farà qualcosa per la mia generazione” e “farà tornare l’India a essere un paese forte”. Al centro di Meerut si parla molto di “opportunità” di “estirpare la corruzione”, di “pubblico impiego”, di orgoglio nazionale. Molti fanno avanti e indietro ogni giorno sugli autobus affollati per andare a New Delhi a studiare o a lavorare. Altri, compresi molti laureati, si guadagnano da vivere con lavori manuali saltuari oppure insegnando nei “college” non ufficiali e scadenti che spuntano come funghi nella periferia della città. Tanti si limitano al time-pass (ammazzare il tempo), un’espressione che Craig Jeffrey, docente di geografia all’Università di Oxford, usa per descrivere sia la noia alienante della vita quotidiana sia il senso di distacco economico e di disimpegno politico. “Questo posto è fermo, arretrato”, dice Archana Sharma, docente di scienze politiche della principale università di Meerut. “Per la povera gente adesso è una questione di sopravvivenza. La comunità imprenditoriale e la classe media temono molto per la loro sicurezza. Vogliono qualcuno che amministri in modo equo ma con mano ferma”.
C’è però un’altra dinamica in gioco, tipica della città. Parlando con la gente di Meerut si percepisce immediatamente una spaccatura netta su Modi. Al centro commerciale, Javed e Furgan, 19 anni, dicono che voteranno per Rahul Gandhi. Sono entrambi musulmani. “Altrimenti ci saranno preoccupazioni per il futuro”, dice sommessamente Furgan. In un parco Mohammed e Azaruddin, due adolescenti che lavorano in una fabbrica di abbigliamento e attrezzature sportive ma che trascorrono il sabato pomeriggio “ammazzando il tempo”, fanno una faccia terrorizzata appena sentono nominare Modi e scappano via. In una moschea cadente, Mobeen Ahmed, un insegnante di studi islamici, dice che a Meerut “i rapporti tra le persone sono buoni e armoniosi”, poi aggiunge che “non ha idea” di cosa abbia provocato lo scoppio della violenza settaria che a febbraio ha causato 64 vittime a solo 60 chilometri da lì. Alla fine ammette: “Se Modi ha tollerato ingiustizie nel Gujarat potrebbe farlo anche da primo ministro”.
Formidabile oratore
Anche i suoi detrattori riconoscono che Modi è un formidabile oratore. Nelle manifestazioni più piccole il suo tono passa da confidenziale a trionfalistico a seconda del tipo di pubblico. Quando parla alla folla a Meerut, invece, sembra solo arrabbiato. “Ancora oggi, più di 150 anni dopo la ribellione del 1857, dobbiamo combattere per far arrivare il roti (il pane) sulla tavola dei poveri. La data di questa ribellione è importante, ma il governo non la considera tale. Il Congress ha dimenticato il numero di giovani che diedero la vita. Noi invece dobbiamo ricordarli”. In tre frasi Modi è riuscito a parlare di orgoglio nazionale, lotta per la decolonizzazione, povertà, giovani, sacrificio e delusione. Cita un importante studioso e attivista indù del diciannovesimo secolo, Dayananda Saraswati. Il suo messaggio, dice, è rilevante ancora oggi. Poi passa a Meerut. La città, dice Modi, è stata dimenticata. “Avete elettricità 24 ore al giorno? Se vostra madre sta male potete accendere il ventilatore? Se vostro figlio ha gli esami potete accendere la luce per farlo studiare? Per gli inglesi gli abitanti di Meerut erano dei nemici, ma per il vostro governo? Perché Meerut non ha strade, ferrovie, un aeroporto? Cosa ha fatto di male Meerut? Che reato ha commesso?”, tuona Modi. Un urlo di approvazione corre tra la folla. “Credete che le vostre madri e sorelle siano al sicuro?”, domanda. “Quando vostra figlia esce, pensate che tornerà a casa e dirà ‘papa, nessuno mi ha dato fastidio?’ Oggi questo stato premia i terroristi e i criminali. A Meerut ci sono rivolte continue. Dieci anni fa era così anche nel Gujarat. Adesso però la gente del Gujarat sa che deve vivere in pace, libera dalla politica dell’estremismo. Sa che deve intraprendere la via dello sviluppo. E la situazione è tranquilla”. Un altro boato, applausi, grida di approvazione sparse. E va avanti così per 49 dei 50 minuti previsti. Ci sono nuovi accenni alla criminalità, alla violenza, alla disoccupazione giovanile, alle tangenti che bisogna pagare per avere un posto di lavoro. Poi parte un attacco improvviso al partito del Congress.
Modi cita Rahul Gandhi, che recentemente in un comizio ha dichiarato che sua madre, presidente del partito, capo della coalizione di governo e vedova di un primo ministro assassinato, gli avrebbe detto piangendo: “Il potere è veleno”.
“Chi è stato di più al potere negli ultimi sessantenni?”, domanda alzando la voce.
“Se il potere è veleno, chi ne ha preso di più? Chi ha lo stomaco pieno di veleno e adesso lo sta vomitando? È il Congress, il partito del divide et impera, che mette una religione contro l’altra, uno stato contro l’altro e sta spaccando il paese”.
“Fratelli, sorelle”, grida Modi. “Basta veleno. Basta con la politica del veleno. Abbiamo bisogno di una politica di sviluppo, in grado di dare assistenza ai poveri, lavoro ai giovani, rispetto alle nostre madri e alle nostre sorelle”. Fa una pausa, poi riprende: “Il tempo sta scadendo. Promettetemi che cambierete questo paese. Stringete i pugni. Ditelo con tutta la vostra forza: ‘Un voto per l’India’”. La folla sterminata, alla periferia di questa città tormentata in uno degli stati più tormentati del paese, fa come ha detto. Modi. Alza il braccio, stringe il pugno e grida: “Un voto per l’India”.
Qualche giorno dopo Modi partecipa a un ricevimento nuziale in un albergo a cinque stelle nel quartiere diplomatico di New Delhi. C’è l’élite del potere di New Delhi al completo. Ministri, governatori, dirigenti del Bjp, imprenditori milionari, famosi accademici e direttori di giornali si sono dati appuntamento per spettegolare, mangiare e bere. Più basso e tozzo rispetto a come appare sul palco, Modi, paterno anche se un po’ impacciato, saluta gli sposi e poi avanza lentamente verso gli invitati. È preceduto da una piccola folla supplicante che cammina all’indietro. Un ambasciatore si presenta insieme alla moglie ingioiellata e si dice “onoratissimo di conoscerlo” perché il suo paese “è un carissimo amico dell’India”. Modi annuisce educatamente e prosegue. Il comizio di Meerut è stato un successo, dice con uno strano gesto, un po’ invocazione, un po’ asserzione, con la mano che punta verso il cielo. Si fa fare una foto con un gruppo di signore di mezza età, poi posa per un selfie con un ragazzo e accarezza dei bambini, leggermente a disagio. Quindi si scusa, si volta e attraversa deciso l’atrio dell’albergo, seguito dalle guardie del corpo, per scomparire nella fredda notte del nord.
L’AUTORE
Jason Burke è il corrispondente del Guardian dal sudest asiatico. Vive a New Delhi. Il suo ultimo libro è The 9/11 wars (Penguin 2011).