Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 9/4/2014, 9 aprile 2014
DA PADOÀN A SCUFFÈT ACCENTI AL LORO POSTO
Se vuole, il ministro Pier Carlo Padoàn, può anche farsi chiamare Pier Ugo o Pier Gennaro: l’Australia ha appena riconosciuto il diritto a non essere definiti nei documenti né maschi né femmine, figuriamoci se può essere negato al ministro dell’Economia, che nel suo intimo non si sente «Padoàn», di chiamarsi «Pàdoan». Nato e cresciuto a Roma negli anni in cui i veneti ancora emigravano e veneta era la servetta Nicoletta de I soliti ignoti e venete altre servette del cinema e del Carosello e parlava veneto («Cossa ghe xè, sior parón?») perfino Matilde, la nera burrosa dell’olio Sasso, è possibile che il giovane Pier Carlo, come ha scritto il linguista Michele Cortellazzo, si sia adeguato alla storpiatura capitolina dell’accento «per garantirsi un’accettabilità sociale ed evitare sdoppiamenti di personalità anagrafica (ossitona in famiglia, parossitona nella vita sociale)». Si chiami come gli pare e morta lì. Purché non pretendano, lui e gli altri, di aver ragione dove hanno torto. Gliel’hanno già spiegato il presidente onorario della Crusca Francesco Sabatini, la dialettologa Maria Teresa Vigolo, tutti i dizionari esistenti, lo stesso Cortelazzo e altri ancora. Piaccia o non piaccia, la regola è quella: se salta l’ultima vocale, l’accento resta dove stava. Punto. Eppure il tormentone continua. Prima ha insistito a «Tg3 Linea notte» il viceministro Claudio De Vincenti, sostenendo che «Padoàn» è la pronuncia dialettale. Sic. Poi perfino Matteo Renzi. Il quale, fermando Lilli Gruber che correttamente ave- va citato Padoàn, ha tagliato corto: «Pàdoan. Mi ha spiegato che non è veneto». Peggio: dopo avere detto che gli interessa «dove cadono i tagli più che gli accenti», ha insistito: «Pàdoan è un romanista sfegatato...». Tesi bislacca: perché non stravolge il cognome di Beatrice Lorenzìn chiamandola «Lorènzin» o «Lòrenzin?». Non è pure lei nata a Roma? La storpiatura del sedicente «Pàdoan» o dell’altrettanto sedicente Alessandro «Càttelan» o di Simone Scuffet, l’astro nascente del calcio che rischia di diventare famoso col nome taroccato (si dice «Scuffèt»: non «Scùffet») sono l’ultima prova d’una perdita culturale. L’emorragia della nostra ricchezza dialettale. Dice la voce «Dialetti» della Treccani che nel 1974 parlava dialetto in casa la metà degli italiani: oggi uno su sei. Se i lombardi parlassero ancora il lombardo e i piemontesi il piemontese avrebbero chiaro che anche nei loro dialetti e non solo in veneto (con buona pace di Pippo Civati e della tesi che «Pàdoan è piemontese») gli accenti funzionano così. Lo dicono i nomi di Milàn (Milano), Luìn (Luino), Tisìn (Ticino), Legnàn (Legnano) e mille altri, da balebiòtt (buffone) a patèll (il panno per i neonati). E lo stesso vale per gli abitanti di Turìn (Torino) e dintorni che portano cognomi come Rostàn, Maurìn, Rochòn... Quanto a Padoàn, non dovrebbe tener troppo alle origini piemontesi. Il «Gran dizionario piemontese-italiano» di Vittorio di Sant’Albino del 1859 dà al suo nome questi significati: «Fantonaccio, buaccio, tambellone, lasagnone, babbaleo, badalone, bietolone, ciondolone. Dicesi ad uomo grande e grosso e buon da nulla, perlone, perdigiorno, scioperato fuggifatica»... Molto meglio sentirsi veneti...