Erika Dellacasa, Corriere della Sera 9/4/2014, 9 aprile 2014
DON LUIGI CHE NASCONDEVA I PARTIGIANI E A NOVANTANOVE ANNI DICE MESSA
GENOVA — La Messa don Luigi la celebra tutti i giorni alle cinque di pomeriggio nella cucina della canonica. Lo raggiungono due suore e chi lo desidera fra gli abitanti di questa piccolissima frazione di un piccolo Comune in Val di Vara, Liguria di Levante: frazione di Castello, Comune di Carro, il paese della famiglia di Nicolò Paganini. Il sabato pomeriggio e la domenica, in chiesa, don Luigi celebra in tre frazioni, coadiuvato dal diacono che lo accompagna in auto: «Non riesco più a fare la predica perché mi manca il fiato — spiega don Luigi —, anche se la parlantina quella non mi è mai mancata».
Novantanove anni compiuti a gennaio, don Luigi Lavagnino è nato qui, in Val di Vara, nel 1915, a Tavarone, e qui è tornato nel ‘47: «Mi è stato offerto più volte di cambiare — racconta — ma io ho sempre risposto di dare ad altri l’incarico e di fare così felici due persone: chi lo riceveva e me, che restavo qui». Ma nei suoi 76 anni di sacerdozio (è stato ordinato nel 1938) don Lavagnino di chilometri in realtà ne ha macinati moltissimi: è stato missionario rurale in Belgio «con i minatori italiani, insieme con don Losi, un grande amico, e poi in Francia sempre come predicatore per la cura degli emigrati italiani» e nel Sud, in Sicilia e a Napoli. Questa vallata — come altre della Liguria — è stata dall’Ottocento in poi terra di emigrazione soprattutto verso l’Argentina: «Le famiglie partivano — ricorda don Luigi — e poi restavano in contatto con me per lettera, poi ci si perdeva, troppo lontane... adesso, dopo tanti anni, qualcuno degli eredi vorrebbe tornare». Nell’archivio della parrocchia ci sono le lettere dei discendenti («Ne arrivano in continuazione» dice la nipote di don Luigi, Gabriella) che chiedono i certificati di battesimo dei bisnonni per poter fare la richiesta di venire in Italia.
La povertà contadina dei primi decenni del Novecento, la guerra, la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, l’emigrazione nel Sudamerica e quella dei minatori in Belgio, gli anni Settanta, don Luigi ha attraversato un secolo con la sua tonaca nera da sacerdote a cui non rinuncia mai: «a’ sottanna» la chiama, in dialetto, «la sottana». «Mai uscirebbe senza» dice la nipote Gabriella.
Alla porta di don Luigi nei decenni hanno bussato il partigiano Mingo, nascosto dal sacerdote quando era parroco nel genovesato, e il cardinale di Genova Giuseppe Siri — il principe della Chiesa che sfiorò due volte il papato — che a Castello veniva a pranzo per parlare con l’amico. «Doveva diventare Papa», si rammarica don Luigi, «ma era duro nella dottrina, e questo non l’ha aiutato». Di Francesco dice che «è il Papa adatto a questi tempi». Primo di otto fratelli Luigi era un bambino malaticcio: «Ricordo che mi venne un febbrone e il dottore, accanto al mio letto, disse ai miei genitori di prepararsi perché non ce l’avrei fatta. Io sentivo tutto e pensavo: questo qui è matto, io non muoio mica».
Una maestra venuta da Genova («si chiamava De Negri») che apprezzava l’intelligenza del bambino e la generosità della famiglia patronale del paese che pagò il primo anno di seminario («Poi sono andato avanti a borse di studio») portarono Luigi verso il sacerdozio. Settant’anni con la tonaca. Rimpianti? «No. Una vita felice, nella volontà di Dio. Il mio padre spirituale che conosceva i giovani e conosceva me mi disse: tu diventerai un buon prete. Spero di averlo accontentato».
Don Luigi è il più vecchio sacerdote che ancora celebra Messa, anche se la Chiesa non stila queste classifiche, però la Cei lo ha invitato nel 2007 a girare lo spot per l’otto per mille: «È venuta una troupe qui a Castello — ricorda Gabriella — mio zio è il sacerdote che andava in bicicletta». Non dice zio, dice con affetto «o’ me barba», alla genovese. Di nipoti don Luigi ne ha più di cinquanta. «La famiglia — assicura don Luigi — è il fondamento di tutto. In questo sono conservatore».