Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

«CONSERVARE I DATI DELLE TELEFONATE? LA PRIVACY CONTA PIÙ DELLA SICUREZZA»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Forse è la reazione europea al Datagate, il racconto di come Washington spiava Berlino, Parigi o Roma. E certo è l’eterno sospetto verso lo strapotere di certi giganti del Web, ai quali non sfugge una sola parola, un solo indirizzo. Ma in ogni caso, la sentenza con cui ieri la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha invalidato la direttiva Ue sulla conservazione dei dati personali (custoditi oggi da 6 a 24 mesi, e captati su ogni mezzo di comunicazione elettronica) marca un pezzetto di storia. Perché dice che la privacy del cittadino conta più della sicurezza. Il cittadino non sa che le sue comunicazioni vengono schedate, ma può intuirlo: e questo «può ingenerare negli interessati la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza».
La direttiva Ue era nata per combattere il terrorismo, o la criminalità organizzata; e oggi, almeno in via generale, i giudici del Lussemburgo ne considerano ancora giustificati i principi ispiratori. Ma nello stesso tempo di- cono che la norma «comporta un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario». La rete è troppo grande, la protezione del singolo troppo incerta.
Molti dubbi hanno spinto la Corte a prendere la sua decisione. Per esempio, in caso di «fatti gravi» di criminalità o terrorismo (termine troppo vago, secondo i giudici) la direttiva Ue consente di mettere a disposizione degli inquirenti tutti i dati raccolti («dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione»). E proprio per questo, almeno in teoria, si registrano e si conservano dati-base: chi chiama chi o chi scrive a chi, quanto dura la comunicazione, dove si trovano i suoi protagonisti. Tutte cose che per la Corte possono corrispondere «a un obiettivo di carattere generale», la sicurezza collettiva. Ma non è previsto in queste operazioni il controllo di un magistrato. E in ogni caso, i giudici individuano un rischio più generale: «Tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno, gli spostamenti, le attività svolte, le relazioni sociali». Il tutto si traduce in una parola: «dossier». Una parola che può riguardare, questo il timore della Corte, un seguace di Bin Laden ma anche un qualsiasi signor Rossi. E poi, dicono ancora i giudici, la direttiva «non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione».
«La Corte ha confermato che la sicurezza non è un “super-diritto” che prevale sulla legislazione della protezione dei dati», ha scritto su Twitter la vicepresidente della Commissione Ue e responsabile per la Giustizia Viviane Reding. «La sentenza va nella direzione da noi sempre auspicata di una più marcata tutela dei diritti», ha commentato il presidente dell’Autorità garante per la privacy, Antonello Soro. «I dati rivelano molto della nostra vita privata».