Michele Focarete e Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 9/4/2014, 9 aprile 2014
LA DONNA DALLE 40 IDENTITÀ UN NOME PER OGNI REATO
Uno, nessuno, quaranta. Sono tante le identità che una quarantasettenne cilena, chiamiamola M., ha dovuto assumere per passare pressoché inosservata in venticinque anni di onorata carriera. Quale carriera? La borseggiatrice. Per ogni identità, cioè per ogni nome falso dato alla polizia o ai carabinieri, un reato contro il patrimonio: una borsa, un portafogli, forse un telefonino, forse un iPad o chissà che altro.
Tutto con il minimo sforzo, senza mai allontanarsi troppo dal centro storico di Milano. Dopo l’ennesimo scippo in via Dogana, a due passi da piazza Duomo, l’arresto e la scarcerazione quasi immediata con obbligo di firma decretato dal giudice. M. Manolesta firma e riprende come nulla fosse la sua attività preferita. Del resto, siccome è clandestina e non può vantare nessuna residenza stabile, le viene benevolmente assegnato come punto di riferimento per la registrazione il Commissariato del centro città.
Niente di più comodo. Il posto di Polizia di piazza San Sepolcro diventa in qualche modo casa sua, sottoscrive la sua dichiarazione, esce e continua a derubare. Alla luce del sole, o quasi. L’ultimo obiettivo è la borsa di una donna che sta pranzando tranquilla, nel normale caos del mezzogiorno, in un caffè di piazzetta Pattari, sempre nel suo territorio del cuore, tra un ottico di lusso e un negozio di moda. Stavolta non la passa liscia: due agenti la pedinano e la colgono finalmente in flagrante.
C’è un filmato che la riprende mentre avanza indisturbata, con il suo giubbetto scuro e il collo di pelliccia supera la porta a vetri, si avvicina inosservata al banco discretamente affollato di avventori che si preparano al pranzo, getta uno sguardo rapido verso una signora che le dà le spalle, allunga la mano, tira fuori qualcosa, forse un borsellino, e lo fa sparire dentro la sacca che porta appesa lungo il fianco. Non sa che questa volta verrà incastrata. Forse per l’ultima volta, ma non è detto. M. Manolesta è una donna comune, non troppo alta e non troppo bassa, con i capelli scuri non troppo lunghi e non troppo corti, né bella né brutta, né molto grassa né molto magra, né elegante né trasandata. Abbastanza comune da essere insieme una nessuna o centomila. Oppure quaranta, che in questo caso fa lo stesso se hai la mano lesta, un repertorio di nomi sufficiente da esibire all’occorrenza e un esercito di poliziotti o di carabinieri pronti a cascarci per venticinque anni venticinque.
Una borsa, un nome (e cognome). M. Manolesta ora dovrà esibire la propria vera identità, ammesso che non se la sia scordata in uno dei tanti caffè in cui ha messo alla prova le sue abilità manuali. Di lei, in realtà, si sa poco o niente: avrà famiglia?, figli da sfamare?, un marito?, un letto in cui dormire? Se sia una ladra gentildonna versione Arsenio Lupin al femminile o semplicemente un unicum: una trasformista capace di diventare invisibile a furia di moltiplicarsi.
Non può passare inosservato che M. Manolesta l’ha ridotto a mera necessità di giornata, a squallida poetica della scaltrezza borsaiola, tuttavia a ben vedere anche il ripetuto sdoppiamento di personalità è un vecchio topos letterario. È vero che quella di Pirandello era una filosofia dell’esistenza tradotta in letteratura, ma anche il suo Mattia Pascal voleva sfuggire al mondo, come un ladro di vita (la sua), celandosi dietro un altro nome, Adriano Meis. Certo, per lui, però, la scomposizione dell’io rappresentava l’essenza stessa dell’identità (o della non-identità) umana, non un escamotage per tirarsi fuori dai guai. L’aspirazione massima, ostinatamente perseguita per una vita intera, del più grande poeta portoghese, Fernando Pessoa, era riuscire a mascherare le proprie generalità dietro i celebri eteronimi, affidando i propri libri alle firme di autori fittizi: Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro... «L’origine mentale dei miei eteronimi - diceva Pessoa - sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione». In fondo, anche M. Manolesta firmava le sue opere (d’arte?) con nomi d’invenzione sempre diversi. Una tendenza organica e costante (venticinque anni!) alla spersonalizzazione. Di lei non sappiamo quasi niente, dunque chi può escludere che si sia ispirata al grande Pessoa?