Sergio Rizzo, Corriere della Sera 9/4/2014, 9 aprile 2014
CRITERI CHIARI E SCELTE SERIE
Da settimane il governo di Matteo Renzi manda un messaggio ai vertici delle grandi aziende pubbliche in vista delle nomine imminenti: dopo tre mandati si va a casa. Con il risultato di innescare interpretazioni curiose. Tre mandati sulla stessa poltrona, o nella medesima azienda? Ed è un principio applicabile solo alle società interamente statali, come Poste Italiane, o anche a quelle quotate in Borsa, quali Eni, Enel, Terna e Finmeccanica?
Speranze, più che domande, puntualmente rimbalzate sui giornali. Le speranze di quanti, insediati ormai da un decennio (e oltre) ai vertici delle imprese pubbliche, contano di poter restare ancora al loro posto a dispetto di tutto. Chi sostiene la necessità di salvaguardare continuità aziendali. Chi fa presente i rischi di un cambio in corsa. Chi poi rivendica risultati strabilianti. Offrendo in qualche caso anche una comoda soluzione: passare dall’incarico di amministratore delegato a quello di presidente. Per affidare poi la propria poltrona ancora tiepida a qualche fedelissimo, e immaginare di continuare a comandare per interposta persona.
Stendiamo un velo pietoso sui disastrosi effetti di tali staffette. Ricordate com’è andata a finire alla Finmeccanica dove nel 2011 Pier Francesco Guarguaglini, dopo tre mandati da capo azienda, venne confermato alla presidenza con un successore scelto fra tre nomi da lui indicati? Un disastro.
Il fatto è che sulle nomine Renzi si gioca un bel pezzo della propria credibilità di premier del cambiamento, forse ancor più che su certe riforme promesse. Perché il primo segnale concreto del nuovo «verso» non può che arrivare da lì. E che nelle aziende pubbliche ci sia una disperata necessità di ricambio del sangue è fuor di dubbio. Se dunque ci dev’essere un rinnovamento, che questo sia reale e radicale. Senza manovre gattopardesche che finiscono per lasciare le cose come stanno, talvolta in conflitto con gli stessi «orientamenti» aziendali. Basta pensare che solo un mese fa il consiglio dell’Enel ha approvato un «orientamento» (simile a quello adottato dall’Eni), regolarmente comunicato al mercato, per cui il futuro presidente dovrebbe essere «indipendente all’atto della prima nomina». Caratteristica che evidentemente mal si concilia, come ha affermato anche la Commissione attività produttive del Senato, con quella di amministratore esecutivo.
Per cambiare non è neppure necessario inventarsi regole e principi che potrebbero anche risultare incomprensibili al mercato, come ad esempio un limite al numero dei mandati. Serve soltanto il coraggio delle proprie azioni, senza subire i soliti compromessi indigeribili con i partiti, le fazioni, le lobby. Il coraggio di affermare gli interessi dell’azionista pubblico rispetto a quelli delle filiere di potere che in tanti anni si sono stratificate intorno alle grandi imprese di Stato e dispongono di una micidiale forza di interdizione. Ma anche il coraggio di scelte indipendenti, legate esclusivamente alle capacità e al merito. Dove per indipendenti s’intende dalle pressioni politiche: comprese quelle travestite.
Proprio qui sta il punto. Indicare le persone che avranno il compito di gestire grandi imprese quotate in Borsa presuppone rispetto del mercato e degli investitori, tanto più nel caso di aziende come Eni, Enel e Finmeccanica che hanno una parte rilevante di azionisti stranieri. Ecco allora che questo passaggio sarà per il governo Renzi anche una impegnativa prova di maturità. Ben al di là dell’immagine, dell’anagrafe, e perfino dei necessari equilibri di genere.