Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 9/4/2014, 9 aprile 2014
La sera di domenica 13 aprile, a New York, vedrò l’inizio della fine. La Tv trasmetterà la prima puntata dell’ultima stagione di Mad Men
La sera di domenica 13 aprile, a New York, vedrò l’inizio della fine. La Tv trasmetterà la prima puntata dell’ultima stagione di Mad Men. Non è una cosa banale: quando finisce una serie non finisce il mondo, ma un mondo, quello sì. E restiamo tutti ancora più soli. Soprattutto se finisce questa. Mad men ha avuto uno straordinario successo in America e ha fallito in Italia, dove è passato come una programma rétro che rilanciava donne formose e cravatte strette, mobili in tek e alcolici all’ora di pranzo. È stato scritto che era impossibile ammirare il protagonista, o identificarsi con lui (che sarebbero le chiavi per aprire il cuore degli spettatori). Ora, vorrei dire una cosa: io ho amato Don Draper, nonostante mi sia identificato con lui. Primo: perché Don Draper non esiste e lo sa. È un pubblicitario che fa soldi, ha una bella famiglia, ma sa di non possedere niente, neppure il nome: ha rubato l’identità a un commilitone morto in guerra per un suo stupido errore. È un vigliacco, figlio di una prostituta, infedele, depresso, tiene un diario zeppo di pensieri pretenziosi, beve troppo, fa sesso con donne improbabili o colleghe della madre, non capisce i suoi figli, divorzia, si risposa, sbaglia e se ne rende conto. Che cosa lo tiene vivo? L’attesa. L’attesa di essere smascherato. Farla franca è una sensazione inebriante e inaccettabile. Ne usciamo con i lapsus freudiani dell’assassino, tornando sui luoghi del delitto, sperando che Dio esista e ci pensi lui. È umano, superumano. Guardando le storie dei supereroi a fumetti ho sempre pensato che il vero segreto non fosse quello di Clark Kent, essere Superman, ma quello di Superman, essere in realtà Clark Kent. Che gusto c’è a vincere una mano di poker con una scala reale servita? Lo splendore è nel bluff, è rilanciare con una coppia di otto e vedere che cosa succede, godersi gli sguardi di quelli che ci cascano pensando che tu sia uno degli eletti dal destino, baciato dalla sorte. Ma tu lo sai, chi NON sei, almeno quello. In questa recita collettiva tutti siamo prima o poi consapevoli del nulla o poco più che rappresentiamo, conosciamo il nostro lato oscuro e lo veliamo con sete e trucchi. Perfino Matteo Renzi, svegliandosi alle tre del mattino, pensa di essere un bischero che li sta fregando tutti. Forse. C’è un libro di poesie che Don Draper legge al bancone di un bar. L’ha scritto Frank O’Hara, morto a quarant’anni dopo essere stato investito da una dune buggy a Fire Island. Si intitola Meditations In An Emergency. La penultima frase è: «È facile essere belli: il difficile è sembrarlo». Don Draper ci avrebbe potuto fare lo slogan di una linea di cosmetici, se non fosse già stata la linea guida della sua vita. La sua soltanto? Domenica sera comincia ad andarsene mio fratello, tuo fratello, lettore. E quando finisce una serie è come quando finisce un amore: te ne fai una ragione, metti via le cose diventate ricordi, cammini sul vuoto per un po’, aspettando che si accenda una nuova luce in fondo allo schermo. Per le persone solitarie le serie Tv sono state pezzi di vita. Più ancora, una specie di famiglia che ti ospita in orari strani del giorno e della notte. Ho passato parte degli anni dell’università in Brasile, pazzo per le telenovelas: Dancin’ Days era il mio conte di Montecristo e di notte sognavo la schiava Isaura. Appena potei presi un biglietto per Rio e sulla prima pagina del quotidiano locale c’era una vignetta in cui il dottore comunicava alla paziente: «Le resta un mese di vita». E lei: «Che sfiga! Non saprò mai come finisce Ciranda de pedra!». Finiva bene, sappilo. Mi sono ritrasferito negli Stati Uniti quando al posto della morente letteratura americana sono apparse le serie che hanno cambiato la storia della Tv, nobilitandola. L’ultima stagione è sempre stata per me come la fine delle vacanze estive o la domenica notte. Dice: «Ti restano sempre le repliche». Come in amore: meglio non provarci neanche. La morte è inevitabile: ma perché? «Tutto ha una fine» era lo slogan terminale di Six Feet Under, la serie ambientata in una famiglia di becchini della California. Nello spot la ragazza con i capelli rossi saliva sul carro funebre ridipinto di verde e partiva verso il sole. Avrebbe dovuto consolarmi? Meglio quando tutto s’interrompe di colpo e non capisci perché, ma ti resta la speranza che, da qualche altra parte, continui. Come accadde quando chiusero senza preavviso Capitol e lasciarono la giornalista Sloane Denning davanti al plotone d’esecuzione nell’immaginario stato del Baraq. Forse là è ancora in onda, prima o poi vado a controllare di persona. Mad men comincia a finire davvero e lentamente: ci vorrà un anno per l’ultimo episodio, ma Don Draper ha comunque i giorni contati. Domenica sera uscirò di casa e andrò a sedermi a un bancone sfavillante. Ordinerò da bere e, prima di alzare gli occhi verso la Tv incorniciata dalle bottiglie lucenti, leggerò l’ultima frase del libro amato da Don Draper: «Ti ammiro, tesoro, per la trappola che hai teso: è come un ultimo capitolo che nessuno legge perché la trama è già finita».