Vittorio Sabadin, La Stampa 8/4/2014, 8 aprile 2014
CHAPLIN, LE RADICI DEL SUCCESSO NELL’INFANZIA MISERABILE A LONDRA
Le biografie di Charlie Chaplin sono centinaia, compresa quella, forse non completamente sincera, che scrisse lui stesso nel 1964. Ora Peter Ackroyd, uno dei più prolifici e interessanti scrittori inglesi, ne ha realizzata un’altra per dimostrare una tesi: tutto quello che Chaplin è diventato nel bene e nel male, il suo genio e la sua crudeltà, la tenerezza e i tremendi scatti d’ira, il senso etico e le continue violazioni che ne faceva, le duemila donne che ha avuto e maltrattato, le minorenni che ha sedotto e plasmato; tutto, ma proprio tutto, trova una ragione e spiegazione nell’abisso della sua infanzia, trascorsa in una povertà infinita, priva di affetto e di speranze.
Già si sapeva molto di sua madre Hannah, che partorì Charlie nel 1889 non si sa dove e da quale padre. Era una modesta cantante e attrice con sangue zingaro nelle vene, che si esibiva nei locali a Sud del Tamigi, tra i luoghi più malfamati di Londra. Ackroyd sostiene che per mantenere se stessa, Charlie e l’altro figlio Sydney, si prostituisse nelle strade di tanto in tanto, come erano costrette a fare molte donne nelle sue stesse condizioni. Le cose erano andate un po’ meglio quando aveva frequentato un tale Chaplin, un discreto attore che morì ubriaco a 39 anni ma diede il cognome a suoi figli, pur non essendone il padre. Charlie ha raccontato che non potendo pagare l’affitto, cambiavano abitazione ogni mese, caricandosi i materassi sulle spalle solo per finire nell’ennesima lurida cantina.
Non potendo più badare ai figli, Hannah li lasciò all’Hanwell School for Orphans and Destituite Children, un istituto vittoriano rimasto aperto fino a metà del ‘900. A quei tempi i bambini venivano rasati a zero, picchiati con canne di bambù e costretti a sopportare una disciplina molto simile a quella raccontata da Dickens all’inizio di Oliver Twis
t. Per Charlie, che aveva 7 anni, non erano tanto le condizioni di vita all’interno dell’orfanotrofio a renderlo insopportabile: il cibo non era certo buono, ma almeno ce n’era. A tormentarlo era l’abbandono, l’assenza della madre che non si fece mai vedere per 18 mesi. Definì questo tempo i suoi «anni di prigione» e confessò più avanti che a permettergli di resistere fu la convinzione che sarebbe un giorno diventato un grande attore, il più bravo e il più famoso di tutti.
Sembra un’affermazione inventata a posteriori per dare un tono profetico alle sofferenze della sua infanzia, ma non è così. Charlie amava già allora esibirsi, ballare davanti ai pub, fare pantomime. Osservava i clown e i mimi per ore e ne imparava e ripeteva i movimenti e le espressioni.
Quando nel 1903 una bambina venne ad avvisarlo che la madre era impazzita e stava distribuendo pezzi di carbone in ogni casa, la sua infanzia finì per sempre. Hannah fu ricoverata in un manicomio, dal quale uscì 17 anni dopo. Charlie per vivere aveva rubato cibo e denaro, e sarebbe potuto finire davvero male. Fu una compagnia teatrale che portava Sherlock Holmes in tournée a offrirgli una piccola parte e a salvarlo dall’abisso nel quale stava per cadere.
Dieci anni dopo era in America, ingaggiato da Mack Sennett per le pantomime della Keystone a 175 dollari la settimana. A 26 anni ne guadagnava 60 mila al mese e il personaggio del Vagabondo era diventato un’icona globale. «Mi conoscono in paesi – diceva Chaplin – dove non sanno chi è Gesù». Il denaro e la fama lo resero una compagnia ambita, soprattutto dalle donne. Era alto poco più di un metro e sessanta e aveva una testa un po’ grossa rispetto al corpo, ma i suoi occhi azzurri erano svelti e intelligenti e il sorriso irresistibile. Cercava di conquistare ogni donna che incontrava e raccontò di averne sedotte 2000, senza accorgersi che la maggior parte di loro aveva sedotto lui. Gli piacevano acerbe e principianti, come Mildred Harris, 16 anni, Rita Grey (15), Paulette Goddard (17), Edna Purviance (19). L’unica un po’ scafata che frequentò fu Peggy Hopkins, che aveva già divorziato da cinque miliardari e per la quale era stata coniata l’espressione di «gold digger», cercatrice d’oro. Quando si videro per la prima volta, Peggy disse a Chaplin: «Ma è vero quello che dicono di te tutte le ragazze, che sei superdotato?». Paulette Goddard confermò che Charlie era una «sex machine», capace di maratone notturne inenarrabili.
Una volta gli chiesero quale fosse la sua donna ideale. «Deve essere una – rispose – che io non amo del tutto, ma che è totalmente pazza di me». Le trattava tutte male, facendole piangere, ma aveva anche atteggiamenti teneri e irresistibili. Il suo difetto principale era la gelosia, che causò scenate terribili per un nonnulla. Sul set era un tiranno, che pretendeva la perfezione assoluta. Fece ripetere per due anni interi e per complessivi 342 ciak la scena iniziale di Luci della città, quella in cui la fioraia cieca offre un fiore al Vagabondo: di certo aveva ragione, è ancora un capolavoro di dolcezza e di leggera armonia di movimenti.
Per Ackroyd tutto si spiega con quell’infanzia crudele e spezzata: anche il tema della sopravvivenza in un mondo ostile comune nei suoi film, e la sfida continua all’autorità del Vagabondo, che si comporta come se fosse invincibile. E il bisogno insaziabile di compagnia femminile, compensazione di una madre assente che lo aveva abbandonato al suo inatteso, meraviglioso destino.
Vittorio Sabadin, La Stampa 8/4/2014