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 2014  aprile 08 Martedì calendario

IL CACCIATORE E IL PADRINO


PALERMO
Ci sono giorni che si sente soffocare, inseguito dalle sue ossessioni, umiliato dal niente che ha intorno. A volte diffida anche di se stesso, del suo fiuto, della sua testa. E gli viene il dubbio: «Forse la preda sono io». Dieci anni dopo si ritrova fra le mani solo un pezzo di carta. Un identikit, l’ultimo. Ma è sempre lì, appostato fra gli alberi davanti a un casolare, dentro la sua macchina che procede lentamente nel traffico dietro un’altra macchina, rinchiuso in una stanza buia dove ascolta con le cuffie il respiro della notte. Un silenzio, un lamento, un pianto. «I rumori del sonno ti fanno capire le persone più delle loro parole», dice. È penetrato nelle loro vite, fino in fondo. La sorella, l’ex fidanzata, le cugine, la madre, i cognati, il fratello di “Testa dell’Acqua”, tutti i parenti di Matteo. Ormai anche lui lo chiama così: Matteo, solo Matteo. Come se lo conoscesse da sempre, come se fosse uno di famiglia. Le sue labbra si piegano in un sorriso. Ma non è un sorriso, è una smorfia: «A proposito di famiglia: l’altra sera sono andato oltre, ero steso sul letto e ho guardato una vecchia foto, a un certo punto mi sono immaginato quel giorno in mezzo a loro che festeggiavano una prima comunione. Chissà, ho pensato, chissà se così riuscirò ad arrivargli più vicino». L’uomo che parla ha un aspetto dimesso, anonimo, fa di tutto per passare inosservato. La barba di due giorni, occhialini, un pullover a V, una vecchia giacca. Non ha nome, non ha più il suo nome da quando è alla caccia di Matteo Messina Denaro. Di lui si può solo dire che fa parte di una delle quattro squadre – una della polizia, la seconda dei carabinieri, le altre di finanza e Dia – che si sono divise il compito di mettere sottosopra quella Sicilia immobile che scivola verso Castelvetrano, il regno del latitante più latitante d’Italia. Per ora, lui e gli altri, si sono divisi il vuoto. Nonostante i cinquecento e più aiutanti o consociati catturati. Negli armadi della procura di Palermo non c’è più spazio per conservare tutti i faldoni che raccolgono le biografie dei complici. Se le ricorda bene lui tutte le volte che Matteo non c’era, che non c’era più. Un letto caldo, una donna in lacrime, una lettera mai spedita. Ha fatto un elenco che tiene nel suo taccuino, lo porta sempre con sé, nella tasca interna della vecchia giacca. Sul taccuino c’è segnato tutto: l’ora, il giorno, il mese, l’anno in cui il latitante è rimasto latitante. Sempre davanti a lui e ai suoi compagni, come se fosse sempre informato delle loro mosse. «È in quei momenti che ti senti schiacciato, che ti viene quell’incubo, che sospetti di tutto e di tutti, che hai sempre l’angoscia di qualcuno che ti scivoli alle spalle e ti tradisca». Il suo taccuino si apre. Il 14 giugno del 2000 i poliziotti sono sicuri di prenderlo alle porte di Palermo, fra gli scogli di Aspra e Bagheria, ma nella villetta trovano solo le sigarette sul tavolo, tutto il suo guardaroba nell’armadio. Nel dicembre del 2004, vacanze di Natale, sono sicuri di prenderlo a casa di Franca Alagna – la donna che gli ha dato una figlia – ma lui se n’è appena andato via. Il suo odore è ancora lì, forte come il caffè versato nelle due tazze. Nel dicembre del 2009 le microspie segnalano “rumore” nel cerchio stretto di Matteo, c’è chi sta sistemando una villetta in riva al mare, lo aspettano nel fine settimana. Sono sicuri di prenderlo anche quella volta, all’ultimo momento Matteo rinuncia all’ospitalità. Trova un altro riparo, trova altri amici che lo accolgono nelle loro case. La provincia trapanese è diventata tutta una grande tana. Gli capita, ogni tanto. Lui che pedina per settimane un uomo o una donna e ha il presentimento di essere pedinato, lui che intercetta una voce sul telefono e ha il sospetto di essere lui intercettato da un telefono. Si guarda sempre attorno, ha sempre una paura, se lo sogna anche di notte quello che fa di giorno, come in una visione: «Che sono gli altri a cercare me». Riapre il suo taccuino. Un altro elenco. Diciotto paginette, un numero dietro l’altro, la lista di tutti i fiancheggiatori, penna rossa per gli schedati di mafia, penna blu per gli incensurati, i commercialisti, gli avvocati, i medici, gli imprenditori. «Le facce pulite, le chiamate così sui vostri giornali, gente perbene che non ha mai preso una contravvenzione neanche per divieto di sosta, sono loro che lo tengono libero, loro e qualcun altro..». Il cacciatore sembra un ragioniere diligente con tutti quei suoi appunti ordinati, apre un cassetto della scrivania, le sue dita frugano fra buste e lettere. «Questo è un suo messaggio al boss Salvatore Lo Piccolo … scrive di un certo “dottor Sangiorgi” al quale chiede di mandare un fraterno abbraccio...». Il dottor Sangiorgi, uno dei tanti che non ha ancora un volto. Ce ne sono almeno altri quattro di questi “signori” non identificati: uno è un politico, un altro fa il costruttore, il terzo è un tipografo, il quarto un amico del vecchio Ciccio Messina Denaro, il padre di Matteo. Sta seguendo le loro tracce leggendo e rileggendo ogni sera i pizzini di Matteo. Sono tutti riconoscenti a Matteo e Matteo è riconoscente a loro. La mafia è fatta anche di questo: di riconoscenza. La sua caccia ricomincia ogni giorno. E ogni giorno è uguale e diverso da un altro. Per un’amante vera o presunta, per un supposto vivandiere, per uno sconosciuto che all’improvviso si fa vedere in paese. È una guerra di nervi. Tracce evidenti, indizi labili. La volta che lo pensavano dentro un’ambulanza, l’altra volta dentro un camion frigorifero che trasportava pesce. Una sera entrano in una gioielleria e scoprono la porta blindata che si apre su un ascensore, scendono in un sotterraneo dove c’è un appartamento. Si nascondeva lì, prima. Sicuramente. Dopo trovano solo collier, orecchini, lingotti d’oro, crocifissi tempestati di brillanti, sterline. Il tesoro di Totò Riina. «Dobbiamo capire ancora qual è il suo punto più fragile, ogni uomo ce l’ha», bisbiglia. Saranno forse le donne e le sue lettere d’amore. A Sonia H: «Devo andare via, non posso spiegarti le ragioni della mia scelta. In questo momento le cose depongono contro di me, sto combattendo per una causa che non può essere capita». Da Maria M: «Ho voglia di darti tantissimi baci, mi manchi un mondo. Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te». Saranno i soldi. Saranno i suoi protettori che un giorno non lo proteggeranno più. Chiude il cassetto. Sulla scrivania c’è la foto della sua famiglia. Quando hai cenato l’ultima volta con tua figlia? Quando sei stato l’ultima volta al cinema con tua moglie? Quando hai mangiato l’ultima pizza con i tuoi amici? Non ha voglia di parlarne. Sensi di colpa. Lo sguardo si allontana, si perde. Gira intorno alla sua esistenza più intima e racconta delle notti passate sul pizzo di una montagna con il binocolo a infrarossi a fissare inutilmente una finestra, ad arrampicarsi sui pali della luce fingendosi tecnico della società elettrica, a travestirsi da netturbino o da muratore, da fidanzato, da ambulante, agente di commercio, pescatore, contadino. Per rincorrere Matteo ha perso anche un po’ di soldi, suoi soldi, quel misero stipendio che gli dà lo Stato non lo porta mai tutto a casa. Anticipa il denaro delle missioni, si paga da sé la benzina e i panini, l’acqua, la birra. È da nove mesi che i poliziotti della squadra mobile di Palermo aspettano i rimborsi, gli operativi del Ros si sono perfino autoridotti del 50 per cento l’indennità di trasferta pur di stare lì. Pur di non mollare la presa e arrivare sempre più vicino a Matteo. Forse la medaglia non gliela daranno mai. O forse gliela daranno poi, come hanno fatto con “Occulto”, carabiniere della sezione “catturandi” di Trapani, il maresciallo Fabio Summa. Una vita fra le vigne di Campobello di Mazara e le saline di Mozia a sputare sangue, giorno, notte, pioggia, scirocco. Sempre su quella sua Punto tutta scassata, a stare dietro a questo e a quello che lo avrebbe potuto portare a Matteo. Prima l’indagine sui “signori del vento”, i manager dell’eolico prestanome del boss per più di 3 miliardi di euro. Poi il maresciallo Summa si è travestito da ombra per non perdere mai di vista un altro, uno che Matteo lo conosceva bene. E il pomeriggio del 28 maggio del 2013 era sempre al suo posto, sulla sua Punto sfondata. Seguiva, seguiva, con il cuore che per l’emozione o per la paura batteva sempre più forte. Così forte che è scoppiato. Così è morto “Occulto”, quarantasette anni e ventisette di servizio. Forse era solo a un passo da Matteo.

Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo, la Repubblica 8/4/2014