Giampaolo Visetti, la Repubblica 8/4/2014, 8 aprile 2014
CACCIA ALLA VERITÀ LA VOCE DEL BOEING ARRIVA DAGLI ABISSI
Il colpo di scena, come in ogni giallo di talento, potrebbe arrivare fuori tempo massimo. Stenta a crederci anche un veterano come Angus Houston, ex capo dell’esercito australiano, chiamato a guidare la più imponente operazione di ricerca internazionale nella storia dell’aviazione. La speranza si è riaccesa all’improvviso, quando dal fondo dell’Oceano Indiano meridionale sono partiti i segnali che il mondo aspettava da un mese. La nave australiana Ocean Shield ha captato due tracce di onde radio «compatibili con quelle emesse dei localizzatori d’emergenza del Boeing 777». Potrebbe essere la svolta capace di consegnare la tragedia del volo MH370, decollato l’8 marzo da Kuala Lumpur per Pechino con 239 persone a bordo, alla leggenda: il ritrovamento del relitto a 4500 metri di profondità, pochi istanti prima che le batterie delle scatole nere si esauriscano, rendendo strumentalmente invisibili per sempre i resti del velivolo inabissato. Al largo della costa occidentale dell’Australia, a un mese esatto dall’ultimo contatto con il Boeing, è scattata così una nuova lotta contro il tempo per non smarrire l’ultima traccia lanciata da apparecchi dotati di un’autonomia di 30 giorni. La Ocean Shield, sabato notte, ha captato un primo segnale acustico di 2 ore e 20 minuti. L’altra mattina il secondo contatto, di 13 minuti, non sufficiente a fornire le coordinate del punto da cui proveniva. «È la pista più promettente di cui abbiamo mai disposto — ha detto ieri Houston nel quartier generale di Perth — ma ancora non possiamo dire di aver trovato l’aereo. Ci sono un’indicazione visiva un segnale acustico: nulla però succede in fretta, in acque tanto profonde».
La speranza ora è riuscire a risintonizzarsi su quei segnali prima che si spengano, per stabilire un punto in cui concentrare le ricerche che impegnano ancora 9 aerei militari, 3 velivoli civili e 14 navi su un’area di 234 mila chilometri quadrati. La paura è che si tratti dell’ennesimo falso allarme, partito da un’altra imbarcazione, o perfino da una balena, che pure emette segnali confondibili con gli ultrasuoni. Tecnici Usa ieri hanno notato che le onde captate dalla Ocean Shield hanno una frequenza di 33,3 kilohertz, rispetto ai 37,5 su cui era sintonizzato il Boeing. Il produttore del localizzatore di scatole nere Pinger Locator, trainato dalla nave australiana, ha spiegato però che quando le batterie stanno per esaurirsi la frequenza può variare. Nel secondo contatto sono state ascoltate sia onde del Digital Flight Data Recorder, che fornisce tutti i parametri di volo, dalla velocità alla direzione dell’aereo, sia del Cockpit Voice Recorder, che conserva le voci all’interno della cabina di pilotaggio.
Recuperare le scatole nere è dunque indispensabile non solo per trovare i resti del Boeing, ma pure per ricostruire cosa sia successo la notte dell’8 marzo, quando l’aereo ha cambiato rotta al confine tra Malaysia e Vietnam senza lanciare alcun segnale. «Questa volta — ha detto Houston — potremmo davvero essere molto vicini al luogo in cui il volo MH370 si è schiantato». Localizzare le scatole nere non significa però trovare il Boeing. Se nelle prossime ore la task force delle ricerche ci riuscirà, la Ocean Shield calerà in acqua il piccolo sottomarino Bluefin-21, che tenterà di individuare i rottami creando una mappa con l’apparecchio sonar. Solo dopo, correnti e tempeste permettendo, potrebbe intervenire una macchina fotografica subacquea. Ancora una volta però il tentativo è ai limiti: mille chilometri a sud-ovest di Perth il fondo oceanico scende oltre i 4500 metri di profondità, limite massimo per il Bluefin-21. Nel 2009, quando precipitò l’Air France Rio-Parigi, le scatole nere vennero recuperate cinque giorni dopo, ma per trovare la carcassa ci vollero 23 mesi. I fallimenti delle scorse quattro settimane giustificano la prudenza. Venerdì, in un’area 375 chilometri a sud-ovest, altre onde sarebbero state intercettate da una nave cinese, dopo il falso allarme di un’imbarcazione britannica. È stata infine la volta del peschereccio cinese Haixun 01, che ufficialmente non sembra dotato di tecnologia capace di localizzare scatole nere. «Un mese di ricerche di 26 Paesi che hanno mobilitato aerei e navi militari — rivela un alto funzionario di Pechino — alla comunità internazionale è già costato come una guerra. È il prezzo più alto mai pagato nella storia di un soccorso: se si accertasse che qualcuno ha depistato le indagini, potrebbe scoppiare uno scontro vero».
Il dubbio continua a crescere. L’allarme sul volo scomparso è partito con un inspiegabile ritardo e per giorni il volo MH370 è stato cercato in zone assurde dell’intero Oriente, tra il Kazakhstan e l’Australia, dopo che i satelliti inglesi avevano definito in poche ore la rotta che, in quasi sette ore, lo ha condotto alla deriva. Kuala Lumpur ha più volte rilasciato dichiarazioni rivelatesi false: dal testo dell’ultimo messaggio, al pilota che l’avrebbe pronunciato, dal tragitto invisibile ai radar scelto dal Boeing dopo il presunto dirottamento, alle centinaia di detriti in mare avvistati dai satelliti. Un mese dopo, mentre le scatole nere si spengono in fondo all’oceano, restano così in piedi solo le tre ipotesi del primo istante: suicidio del pilota, dirottamento sfuggito di mano, sabotaggio. Qualcosa di terribilmente diverso dall’indimenticabile «tutto bene, buona notte».
Dal nostro corrispondente di Pechino.
Giampaolo Visetti, la Repubblica 8/4/2014