Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 08 Martedì calendario

UCRAINA, TOCCA ALL’EST IN NOME DI MOSCA ALL’ASSALTO DI DONETSK


Donetsk è una città di minatori e di impiegati delle miniere, in maggioranza russi di lingua e di origini. Stesse scene, stessa rabbia. La polizia che si schiera minacciosa con scudi e caschi, ma che poi cede per evitare un inutile massacro. Giovani muscolosi, incappucciati e urlanti, che fanno breccia in un tripudio di bandiere di San Giorgio e tricolori russi. La bandiera ucraina ammainata sul tetto e scagliata giù, otto piani più sotto, fino al mastodontico ingresso di questo palazzo staliniano al numero 34 di viale Pushkin, cuore della città e della decaduta autorità nazionale. Ma il rito più evocativo avviene poco dopo, nella sala delle assemblee dove qualcuno ha sistemato frettolosamente insegne e bandiere di Mosca. Un tipo dai baffetti brizzolati in giacca e cravatta arringa in russo una strana platea di “occupanti”. Tutti uomini, molti sotto i trent’anni, qualcuno in tuta mimetica, altri con una spranga pronta all’uso appoggiata sulle ginocchia. Applaudono a scatti, con piglio marziale, lanciano brevi cori di «Russia, Russia», fino a sciogliersi in un’ovazione da stadio alle parole «indipendenza» e «referendum ». Il loro oratore ha appena proclamato “La Repubblica autonoma popolare di Donetsk” e annunciato la ratifica di questa singolare indipendenza cittadina con un referendum «da effettuare non oltre l’11 maggio».
I tremila del viale Pushkin urlano di gioia e si abbracciano l’un l’altro ignorando le sirene della polizia che ormai non fanno più paura a nessuno. Gli agenti ucraini si limitano a controllare da lontano, evitano lo scontro, sembrano in attesa di rinforzi che non arrivano: le forze speciali di Kiev arriveranno solo in serata, riprendendo il controllo del palazzo del governatorato locale. Ma altre notizie preoccupanti arrivano dall’Est del Paese. E non sono notizie tranquillizzanti. A Kharkiv una folla come questa di Donetsk ha tentato la stessa impresa assaltando senza l’amministrazione regionale di quella città. La pressione è durata una giornata intera, poi a notte, stessa scena e anche qui un gruppo di persone che proclama la Repubblica indipendente di Kharkiv. A Lugansk è andata peggio. I manifestanti filo russi hanno preso di mira la sede dei servizi segreti locali, gli scontri sono stati più duri e ci sono stati almeno sei feriti. E quella che sembra una vera rivolta dei filo russi sta seminando il panico anche alla periferia di Donetsk. Spari sono stati sentiti anche in periferia, davanti alla sede locale della tv di Stato che un gruppo di giovani con tanto di bandiera russa ha cercato di violare sfondando i cancelli con una colonna di auto. Ce n’è per ipotizzare una organizzazione su larga scala di una sommossa popolare. E appare ragionevole il Presidente ad Interim Oleksandr Turcinov quando parla di «inizio della Fase due, dopo l’annessione della Crimea ». Il premier Jatsenjuk è ancora più esplicito: «Putin vuole disarticolare il nostro Paese e lo sta facendo con metodo scientifico». Mosca naturalmente ignora le accuse. Non conferma e nemmeno smentisce l’arresto da parte ucraina di un agente segreto del Gru, i servizi militari russi, che avrebbe coordinato gli assalti di ieri. Anzi, con un comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri, va subito al contrattacco: «È ora di smetterla di puntare il dito sulla Russia ogni volta che qualcosa non va in Ucraina». Un comunicato che prende le distanze da quanto accaduto ma che cerca di approfittare in ogni riga delle conseguenze politiche. Consiglia: «Kiev dovrebbe rispettare di più le minoranze russe a cominciare dal restituire dignità alla loro lingua». Sentenzia: «Fino a quando l’Ucraina non si doterà di una struttura federale, ci saranno sempre problemi del genere». E infine minaccia: «Siamo pronti a difendere in tutti i modi la sicurezza dei nostri concittadini». Somiglia molto ai primi giorni della indipendenza della Crimea. Non ci sono, per il momento, soldati russi in divisa, nemmeno incappucciati e senza mostrine. Da Kiev, dove si cerca di stimolare la solidarietà occidentale, partono notizie sempre più inquietanti. Le truppe russe sarebbero ancora massicciamente al confine nonostante l’annuncio di un ritiro che risale ormai alla settimana scorsa. Agenti segreti russi sarebbero infiltrati un po’ ovunque nell’est del Paese per preparare il terreno a una invasione. I principali oligarchi filo russi Rinat Akhmetov, il presidente padrone dello Shaktar Donetsk di calcio, e Aleksandr Efremov, starebbero finanziando una rete di giovani pronti a tutto per attaccare la polizia e l’esercito ucraino.
Voci attendibili, ma forse esagerate, che si perdono nella confusione di notizie e di sentimenti che ornai regna il tutta l’Ucraina. Movimenti ultranazionalisti ucraini si preparano a combattere contro i filo-russi e questo è forse l’elemento più preoccupante per le prossime ore. Gli occupanti del governo regionale di Donetsk chiedono a Mosca di inviare dei suoi caschi blu a mantenere la pace. Nessuno al Cremlino li prende sul serio ma un’eventuale aggravamento degli scontri potrebbe anche far valutare questa ipotesi. Yiulia Tymoshenko, candidata alla presidenza ucraina, annuncia un tour per le città dell’Est «per chiedere al popolo di non scendere in piazza e di aiutarci a neutralizzare l’aggressione russa». Il clima è già da guerra civile anche se ancora poco cruenta. Putin insiste perché l’Ucraina non accetti basi Nato e riformi la sua Costituzione in senso federale. La bandiera russa che da ieri sventola sul palazzo del potere di Donetsk sembra un’ottima carta per le trattative future.

Dal nostro corrispondente da Mosca,
Nicola Lombardozzi, la Repubblica 8/4/2014