Nicla Vassallo, l’Unità 8/4/2014, 8 aprile 2014
PICCOLA FILOSOFIA DELLA FORMULA UNO – [DA SENNA A SCHUMACHER, DUE «EROI» DECIFRATI ATTRAVERSO L’OPERA DI CANETTI]
MI VIENE DA RILEGGERE LA VICENDA DI MICHAEL SCHUMACHER CON GLI SCRITTI DI ELIAS CANETTI, FORSE PERCHÉ CANETTI parlava molte lingue, era un «girovago» e guardava al potere della massa con un certa criticità, mentre Schumacher, se non erro, non discorreva in italiano fluente; viaggiava, certo, ma in modo diverso da Canetti, e gli onori che la massa gli attributava non dovevano dispiacergli.
Schumacher, giudicato tra i più grandi piloti della F1, non ha scelto, a quanto ne so, una vita «comune»: nessuna mollezza, nessuna rinuncia, poche lagnanze. Una vita da gladiatore. Una vita che lascia una traccia. Così Canetti: «La vita è lotta, lotta senza quartiere, ed è un bene che sia così. L’umanità, altrimenti, non potrebbe progredire. Una razza di deboli si sarebbe estinta da un pezzo, senza lasciare traccia». Eppure rimane un uomo, Schumacher, che, fuori dall’arena, fuori dal Colosseo della F1, mi è sempre parso incapace di confrontarsi con la sensibilità del concreto. Così Canetti: «Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano».
Ha sempre voluto vincere, anche a costo di risultare scorretto – dopo di lui la scorrettezza si è imposta, più di prima. E, forse grazie a ciò, molti si sono imposti, oltre che tra i piloti, tra spettatori, adulatori, altri. Con quei suoi occhi «spietati di chi è amato sopra ogni cosa», e di chi intende esserlo. Come se lui e i suoi adoratori non sapessero che «c’è chi si fa illuminare da cose di poco conto, all’improvviso: meraviglioso. C’è chi è incessantemente illuminato da cose “importanti”: tremendo». Illuminato? Oggi in molti oggi lo ignorano e altri lo comprendono: da pilota doveva morire; nulla gli doveva accadere in un banale incidente sciistico.
CHIAVE ANALITICA
Dovremmo interpretarlo con una leggera lente psicoanalitica (nonostante Canetti disprezzasse Freud): Schumacher nasce in una famiglia modesta, non tanto e non solo sotto il profilo sociale ed economico (perlomeno in Germania: perché, invece, in Italia un meccanico guadagna più della sottoscritta), quanto sotto il profilo culturale. Suo padre, tra l’altro, possiede un circuito di go-kart. Palese (o forse no) iniziare i figli all’agonismo, quello che sarebbe diventato famoso, Michael, e quello sempre in secondo piano, Rolf. E chi di cultura non vive difficilmente riesce a trasmetterla, così pare che gli studi scolastici di Michael Schumacher si limitino a un istituto tecnico. «Si può vivere soltanto se, con una certa frequenza, non si fa quello che ci si propone.
L’arte consiste nel proporsi la cosa giusta da non fare». E, invece, Schumacher si è proposto la cosa giusta da fare (correre), ma anche altri, per nulla famosi, anzi, se la sono proposta: arresi, e pure incapaci di confrontarsi con la F1, o con la cultura/incultura del gladiatore.
E ora? Dopo il clamore su Michael Schumacher per l’incidente in montagna (ovvio, tutti si attendevano che ciò dovesse accadere sull’asfalto) sappiamo poco, nonostante il web (youtube incluso) venga inondato di notizie e di commenti, non sempre informativi o comunicativi. Lui è stato incessantemente riservato. Siamo ancor poco al corrente sulla recentissima vita di Michael. Inclusa quella a Meribel. Di sciatore, neanche tanto provetto – ma che importa? Non si può mica essere provetti in tutto. Neanche troppo fuoripista, indossava un casco, cosa del resto sostanziosa: altrimenti la sua vita si sarebbe quasi spenta all’istante. Però, in F1 non si corre senza il casco, e quando si finisce fuori pista non è gran cosa. Scegliere il fuori pista o finire fuori pista fanno parte di due diverse, opposte, realtà.
Mi domando cosa Michael Schumacher abbia incitato, fisicamente, mentalmente, cosa, dopo una matura carriera di grandi sfide, abbia voluto o forse dovuto sperimentare, per entusiasmo o dolore. Si trovava in vacanza, e nessuno (o quasi) s’interessava di lui. La sincerità delle differenze significanti? Tra quella pubblica di eccelso campione in F1 e quella privata in cui si scia, da «comune» sciatore. «Ci sarebbe da domandarsi che cosa sa fare uno che non è pronto ad arrischiare senz’altro tutto quello che sa fare in vista di qualcosa di meglio». Ecco tale domanda non è (immagino) neanche sollevabile su Schumacher.
La sua esistenza si rivolge interamente all’esercizio fisico, alla dedizione, alla sfida. Alla ricerca di una propria acclamata identità. Sempre critica e costruttiva (o distruttiva nei confronti degli altri), attenta nella e alla sfida (cosa è accaduto sciando?), in un qual senso virtuosa. Però di lui e in lui, rimane la prevalenza del concetto di gladiatore sorridente, emotivo-calcolatore, al di sopra dell’autorità e l’autoritarismo.
In lui vissuto nelle contraddizioni della morale, della scelta, pure nei conflitti e nelle preferenze. Indugia qualcosa di primitivo, germanico, in ogni sua passione, in cui entusiasmi e prove si combinano a forme radicali d’azione. Nulla di stravagante, per carità. Capita a tanti.
La sfida, estrema, professionista, in F1, e vacanziera, contiene un impegno stilistico in ogni attimo, salutare e corporale, un dialogo con se stessi e il proprio duello con la vita, in una approssimazione che odora troppo di fama: «Per natura ogni fama è inganno. Talvolta si scopre però che dietro, nascosta, qualcosa c’è. Che sorpresa!». Dietro c’è lo sci, sport in cui non eccelli e che non conosci a tal punto da non riuscire a evitarne i piccoli rischi, perché tu sei abituato ai grandi. «Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto», e, forse, dello sciare l’uomo onnipotente, sebbene maldestro in montagna, poco temeva.
Con anima? Senza anima? Il coraggio istruito o meno, al pari del suo, s’imbeve di giustizia e ingiustizia. Di una giustizia e ingiustizia pratica, quasi antica, sensibile, stoica ed epicurea. Col nostro tedesco che pare smentire, e al contempo riconfermare, ogni nostro pregiudizio (forse giudizio) sui tedeschi. Non tanto quanto pilota di F1 che ha vinto più titoli, tra i migliori campioni dell’automobilismo sportivo. Quanto sciatore che scia senza notorietà e, infine, paga i propri errori – che sappia pagarli è altra storia. Certo, un errore lo ha pagato, o glielo hanno fatto pagare. Con il “rispetto della propria privacy”. Con onestà, al di là di ogni romanzo spericolato, d’amore e avventura, in cui finiamo coll’invocare qualche alloro? E’ come se «ciò che può permettere di uccidere è temuto, ciò che non serve direttamente ad uccidere è solo utile». E in montagna Schumacher continua a richiamarmi alla mente Canetti: «La cosa più veloce fu però sempre una sola: il fulmine. Il timore superstizioso del fulmine, dal quale non c’è difesa, è ampiamente diffuso».
Tuttavia, non dimentichiamolo, Ayrton Senna, che, non si è incidentato sulla neve, è scomparso, assumendosi ogni coraggio, rischio, confronto. Ayrton nelle incomprensioni. Il miglior Ayrton. Quello che proveniva da una famiglia benestante. Ayrton il meno macho, il leale, il signore. Morto sul campo. Nell’impresa avventurosa e ardente. Nella sfida con se stesso, per virtute e canascenza. Esattamente vent’anni fa, e nel suo caso Canetti risulta oltremodo calzante: «La morte come desiderio si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce». Lui Ayrton, il signore per l’appunto, prima di incontrare la morte correva con la bandiera austriaca, in commemorazione dell’incidente mortale di Roland Ratzenberger.
C’è ancora oggi chi paragona i “due” (sul web, per esempio, e non solo) per comprendere chi fosse il pilota migliore. Ma ha senso? Ayrton Senna, con nobiltà, ha avuto alcune volte, da ridire, sui comportamenti – giustamente a mio avviso – di Michael Schumacher. Senna è morto vent’anni orsono e lo ricordo come una gazzella, grazie a Canetti «Se le gazzelle avessero una fede e se il leone fosse il loro dio, potrebbero spontaneamente concedergli una di loro per placare la sua avidità. È proprio quello che accade fra gli uomini: dalla loro angoscia di massa trae origine il sacrificio religioso, che per un certo periodo di tempo frena il corso e la fame del potere pericoloso».