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 2014  aprile 08 Martedì calendario

ITALIA 1934 IL CIELO È AZZURRO SOPRA ROMA


Per il calcio azzurro il 1934 fu il tratto di un percorso storico, un’alfa ed omega che resero insuperata la nazionale per l’intero decennio. Marchio di fabbrica, Vittorio Pozzo, torinese, il calcio come passione, il giornalismo come lavoro, la dignità come rivendicazione, il senso patrio nel cuore e sulla lingua. Un tecnico di prim’ordine nell’arcaicità artigianale del tempo, un’autorevolezza fuori discussione. Severo verso le critiche petulanti, fu sempre oggetto di un rispetto istintivo, filiale da parte dei giocatori, anche nelle più ruvide delle individualità, tutte coinvolte io un disegno comune. Praticante in gioventù nelle compagini cittadine Internazionale e Torinese, successivamente nelle riserve dei Grasshoppers di Zurigo e in Inghilterra, poliglotta secondo ragioni di studio, Pozzo era stato investito della responsabilità della nazionale dal lontano 1912, definitivamente assegnatagli nel 1929 e ininterrotta fino al dopoguerra. Due le condizioni all’assegnazione dell’incarico: carta bianca e assenza di retribuzioni.
Fu, l’anno, eco del trionfo di Learco Guerra al Giro, dell’Alfa di Achille Varzi nei Gran premi di Tripoli e Nizza, nella Mille Miglia e nella Targa Florio, d’un superbo Giulio Gaudini agli europei di scherma, del quarto dei cinque scudetti consecutivi della Juventus. All’appello del mondiale, presentato graficamente da un manifesto di Aldo Boccasile, risposero in 32, un abisso rispetto alle 13 rappresentative della prima edizione. Ridotte a 29 per il ritiro di Cile, Perù e Turchia, il calendario fece il resto nelle fasi eliminatorie (a Milano, il 25 marzo, Italia-Grecia 4-0, unica presenza in nazionale, mezz’ala, per il solo primo tempo, di un nome che diverrà celebre, Nereo Rocco), bloccandone 16 per i turni conclusivi.
Il 27 maggio – fuori squadra Fulvio Bernardini, il primo dottore del calcio italiano, una tesi sull’economia della Guinea francese, un profeta, «troppo bravo in campo», mirabilmente individualista per rientrare negli schemi di una squadra votata al collettivo assoluto – con tre gol di Schiavio, l’Italia liquidò negli ottavi di finale gli Stati Uniti (7-1) nello Stadio Nazionale del Partito. Schieramento in campo, il «metodo» dell’epoca, due terzini, tre in mediana, cinque all’attacco. Per i quarti, si salì a Firenze, il 31 maggio, contro una Spagna sorretta dalla fama di imbattibilità tra i pali di Ricardo Zamora. Tra gli azzurri, gli oriundi Monti, Guaita ed Orsi, ingaggiati da squadre italiane subito dopo il mondiale in Uruguay. Reti di Luis Regueiro e Giovanni Ferrari nei 90’, supplementari ancora in parità con l’Italia ridotta in dieci per frattura di Mario Pizziolo, appuntamento, obbligato, al giorno successivo, assente Zamora per un ginocchio malmesso, giochi fatti al 12’. Firma, quella di Meazza.
In semifinale, Milano, 3 giugno, 811.526 lire d’incasso, di fronte due dottrine, due sapienze tecniche del tempo, Pozzo e Hugo Meisl, condottiero della squadra delle meraviglie, il Wunderteam austriaco, bestia nera degli azzurri, vincitore nel 1932 al Prater di Vienna della Coppa internazionale – 2-1 in finale sull’Italia con reti di Matthias Sindelar, il «Mozart del pallone» – e ancora, per 4-2, a Torino, nel febbraio del ’34. A Pozzo riuscì un miracolo: il recupero completo di Attilio Ferraris, capitano della Roma di Testaccio, furia agonistica a tutto campo, un’esistenza versata con immutabile foga a calcio, donne, poker, sigarette. Fu da un suo lancio che partì l’azione che condusse Enrique Guaita alla segnatura. Era il 19’. Con quella rete l’Italia entrò in finale. In vista della partita conclusiva contro la Cecoslovacchia, vincitrice in successione di Romania (2-1), Svizzera (3-2) e Germania (3 -1), Pozzo trasferì la sua truppa nella tranquillità di Roveta, colline toscane tra Firenze e Pisa, allenamenti nel capoluogo assistito in campo da Carlo Carcano, il tecnico dei 5 successi juventini, pranzi consumati sotto la tribuna centrale dello stadio Giovanni Berta secondo un protocollo alimentare prescritto personalmente da Pozzo. Lo schieramento della semifinale restò immutato. 10 giugno, Roma, stadio gonfio come un uovo, Nicolò Carosio in diretta radiofonica. Primo tempo in bianco. Poi, al 71’, doccia fredda, il tiro quasi da fondo campo del piccolo Antonin Puc. Dieci minuti, e Raimundo Orsi rimise in pari. Si andò ai supplementari. A Guaita, ala, e a Schiavio, centroavanti, Pozzo ordinò di invertire i ruoli. Fu la mossa risolutiva. Al 95’, una triangolazione Meazza, Guaita, Schiavio consentì al bolognese di inchiodare František Plánička. Fu il primo titolo mondiale di casa nostra. Nelle sue memorie, Pozzo evocherà: «Radunai in albergo i giocatori. Li ringraziai, li abbracciai, uno ad uno. Siete liberi, dissi. Mi misi a scrivere per La Stampa, il mio giornale. Ma loro rientrarono, uno dopo l’altro. Brindammo, allora, insieme, con i telegrammi che arrivavano a fiotti».