Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 7/4/2014, 7 aprile 2014
LA MIA A VITA È ANCORA TUTTA A PRUA
[Nicola Piovani]
Gli anni ’40: “Gigi Magni mi raccontava che quando gli americani carichi di sigarette e caramelle arrivarono a Roma entrando dalla Via Appia, i romani andarono pigramente ad ammirare la processione ai bordi della strada. Erano belli e fieri, i salvatori. Con gli stivali e gli elmetti lucidati, lo sguardo sicuro, i corpi levigati. All’improvviso qualcuno ruppe la magìa e la riflessione lasciò tutti in silenzio: ‘Hai capito chi eravamo andati a pijà de petto noi?’”. Gli anni ’50: “Da bambino, quando a scuola ottenevo un bel voto, mia madre mi premiava con un sapore. Uno squaglio di cacao, una cioccolata calda con la panna che una latteria del quartiere Trionfale a un passo dal mercato del pesce, sventolava come specialità. Le strade erano bianche perché le autobotti, per eliminare gli odori delle pescherie, spargevano acido fenico, miasmi ancor più nauseabondi. Una toppa peggiore del buco”. Gli anni ’60: “Rispetto al mio lavoro, con la fortuna non sono mai stato in credito. Sempre in debito, fin dai tempi in cui in tasca non avevo un soldo e Fiorenzo Fiorentini mi convocava per 5.000 lire a sera a suonare il pianoforte al Cab 37, in Via della Vite”.
Nicola Piovani ha un racconto per ogni decennio. A un passo dai 68 anni, con le sigarette abbandonate da qualche stagione: “Soffri per i primi due mesi, ma rispetto all’assuefazione del giocatore d’azzardo o dell’etilista, una volta abbandonata la schiavitù, ti affranchi dal vizio persempre”,ipremiOscarsullamensola e una valigia di memorie e impressioni sempre pronta al viaggio, il compositore che inventò per Benigni, Bellocchio, i fratelli Taviani, Moretti, Fellini e Monicelli, siede in un ristorante aspirando la memoria: “Da piccolo era un lusso che mi concedevo una volta all’anno”. Dei titoli onorifici, come dell’età, tra un parco pranzo, qualche deroga, il sorriso largo e l’ironia: “Prendiamo una mezza bottiglina di vino per festeggiare? Il Frascati è pure superiore”, Piovani si disinteressa: “Senza nulla della boria dovuta a chi insegna il verbo, maestro mi chiamava Mastroianni. È una parola che mi piace perché riporta all’artigianato. Ai maestri carpentieri, ai falegnami, ai vetrai”.
Soffiando nella sfera dei ricordi, Nicola Piovani ha scritto un libro. Schivando “le trappole della nostalgia”, al solo scopo, giura: “Di mettere in fila alcuni pensieri confusi che forse restano tali, ma con i quali, ora che sono sulla pagina, mi confronto meglio”. Al comando di un pianoforte nero: “Non so perché ho sempre ricollegato quello bianco al senso del ridicolo”, la testa vagamente china, l’aria concentrata, il braccio sinistro leggermente sollevato, il musicista emerge dalla copertina de La musica è pericolosa (Rizzoli, 184 pg.g., 17 euro) dopo aver creduto, per molto tempo, che l’impresa non fosse nelle sue corde. “L’editore me lo propose e io promisi che ci avrei riflettuto. Sono passati quasi 4 anni. L’ho scritto in campagna, a Corchiano, nel viterbese, dove ho una casa e mi rifugio spesso per allungare le giornate. Quando vado lì i tempi vitali si dilatano. Cucino, lavoro, cammino, mi fermo al bar per parlare con la gente. Roma divora tutto,‘scorcia’ i tempi, si mangia le ore. Il cinema mi ha insegnato che l’unico modo di finire di scrivere è fissare una data di consegna, 7 mesi dopo aver detto sì, l’ho mantenuta”. Tra le pagine, incontri, facce, riflessioni, esseri umani, politica e anatemi. Il ritmo quieto di Piovani e la serena consapevolezza di un obiettivo da raggiungere con metodo: “Anche se il mio mestiere, soprattutto quando sono in tournèe, non permette un ordine eccessivo perché si inizia alle sei di sera e si finisce a tavola alle due di mattina, la fretta è pessima consigliera dell’ispirazione. Per un libro come per una partitura. Di notte non produco niente di buono. Quando arriva il tramonto chiudo tutto e rimando al giorno dopo. So che al risveglio troverò la soluzione. E che mi apparirà semplice. Non di rado mi domando: ‘Come non averci pensato prima?’ A volte ci si perde, ma Fellini mi spiegò che smarrirsi è una ricchezza. Una volta usciamo da Cinecittà, lasciamo la Tuscolana e nei pressi dell’Acquedotto Felice, Federico mi suggerisce una scorciatoia per rientrare in centro”.
Lei lo asseconda?
Guidare con il controcanto onirico di Fellini era una gioia, quindi sì, mi piego al consiglio e senza navigatori satellitari in poco tempo, perdiamo le coordinate. Fellini a dare indicazioni vaghe: “Mi pare fosse la prima traversa, gira qui, no aspetta, forse era l’altra” e il paesaggio urbano che cambia all’improvviso. Case abusive senza intonaco, campi nomadi, carcasse di auto, copertoni ai bordi della strada. Io avevo un’aria preoccupata, Federico sembrava divertirsi: “Guarda che incanto, Nicolì”. Alla fine ritrovammo il sentiero, ma la sera dopo si ripropose la stessa situazione. Lui sicuro: “Non preoccuparti, questa volta mi hanno spiegato perfettamente dove andare”. Io ero perplesso.
Si accodò anche in quella occasione?
Misi avanti il dubbio: “E se ci perdiamo ancora?” E lui, spiazzandomi:“Speriamo!”. Una lezione che insieme allo stupore della scoperta non ho dimenticato.
Le capita di stupirsi ancora?
Spesso e non solo con lo stupore della bellezza. Mi succede ascoltando una musica meravigliosa, come nel riflettere su una frase di Giovanardi. Lo stupore è democratico e non restituisce solo luce.
Delle luci dell’infanzia cosa ricorda?
Una famiglia robusta, nessun lusso, molta dignità senza svolazzi. I vestiti nuovi non erano previsti e io portavo i pantaloni di mio fratello rovesciati. Mio padre Alberico, aveva fatto la terza elementare. Prima della guerra aveva guidato i mezzi pubblici. Sotto le bombe aveva mantenuto la famiglia con qualche genere alimentare rivenduto alla borsa nera e dopo, a conflitto confuso, si era dato da fare, per non farci mancare niente come si diceva all’epoca. Aggiustava i motori, custodiva un garage, gestiva la compravendita di auto usate. Poi c’era il lato artistico. La sorella di mio padre, Pina Piovani, era stata attrice di varietà. Pur essendo stata la moglie di Totò in Guardie e ladri, aveva in sé tutti i registri e il comico, forse, era il meno importante: era la mamma di Gina Lollobrigida ne La romana di Luigi Zampa.
Le ascendenze familiari sono state importanti?
Al 50 per cento siamo il prodotto delle combinazioni astrali e delle eredità. Un ambito su cui è complicato intervenire. Lì nasciamo, da lì veniamo e quello siamo. Ma a casa eravamo tre fratelli e le dico la verità, tra noi oggi siamo un bel po’ diversi. Il che dimostra che l’altro 50 per cento dipende soltanto da noi. Su quella metà, le stelle nulla possono. Ed è in quello stagno che con un po’ di fortuna e qualche talento in tasca, bisogna provare a far nuotare l’intelligenza.
Ne ha incontrate molte?
Moltissime. Mastroianni era spiritoso, dolce, ironico e dotato di un’intelligenza acutissima che faceva di tutto per nascondere. Voleva starne al riparo: “Esse intelligenti è impegnativo, Nicò”. Marcello lo conobbi con Monicelli, altra testa straordinaria con il gusto per la provocazione. Quando i giornalisti gli chiedevano il segreto per invecchiare bene si divertiva a inventare panzane clamorose. Balle sesquipedali tirate fuori solo per confondere, divertirsi, giocare con la vita e con un mestiere di cui attraverso il padre aveva conosciuto pregi e difetti. Per Mario feci le musiche de Il marchese del Grillo, ma capitava di incontrarci soprattutto fuori dal lavoro. Mi insegnò qualcosa di fondamentale anche lui.
Cosa?
“Se non vuoi ritrovarti affogato nella noia, cerca di non frequentare troppo i tuoi coetanei. O i vecchi, o i giovani. Mai quelli della stessa età che ti fanno parlare sempre di ricordi”. Aveva ragione. Una chiave importante del cinema di Monicelli, credo sia la stessa dei suoi sceneggiatori Age e Scarpelli, è nell’assoluta mancanza di giudizio. Non bisogna mai mettersi al di sopra del personaggio, ma anzi, rispettare le sue aspirazioni anche se non coincidono con le nostre.
Cosa ha perso il nostro cinema nei decenni?
Tante cose, ma ha dovuto confrontarsi con lo strapotere della Tv. Se il nostro cinema migliore avesse dovuto superare le forche caudine del funzionario che giudica l’adattabilita di una storia alla prima serata, tanti capolavori non sarebbero mai stati prodotti. Non intendo solo storie estreme come Ultimo Tango, ma neanche La Grande Guerra o La Dolce vita. La tv sottopone a una censura preventiva di cui non ci rendiamo neanche più conto.
La politica la appassiona ancora?
Sempre meno e sempre meno sento un’appartenenza.
Negli anni ’70 era diverso?
Sono stati il regno della contraddizione estrema. Dell’aspirazione verso l’oltre e verso l’altro. Della generosità, del gesto scriteriato e del ridicolo. Certi slogan non me li sono più scordati. “Borghesi/borghesi/ ancora pochi mesi” o il più fantasioso “Sacro cuor del mio Gesù/ fa che torni Dien Bien Phu”.
L’Occidente era sempre nel mirino.
Se non eri antimperialista, in campo artistico, semplicemente non eri. Mi ricordo una rappresentazione teatrale intitolata Americani in cui dal palco gli attori gridavano “Ameri” e dal pubblico, in coro, la gente rispondeva: “Cani!”. Detto questo, se oggi discutiamo di diritti e di parità, lo dobbiamo anche a certe vitali battaglie di quel decennio. Si accesero alcune luci, non tutte pessime. Ci fu chi si rifiutò di chiudersi nel gretto conto di bottega e provò a volare alto: qualcuno ci ha lasciato le penne, qualcuno ha creato dolori tragici al prossimo.
I ’70 sono anche gli anni del terrorismo e del rapimento Moro.
Quando sequestrarono lo statista ero nel Sud della Francia. Eravamo giovani e stupidi e comprando un giornale in un autogrill, io e i miei amici prima di sintonizzarci rapidamente sul dramma, non riuscimmo a prendere sul serio la notizia del rapimento. Mi ricordo anche il 9 Maggio, il giorno del ritrovamento del corpo. Ero stato in Via Caetani il giorno prima, a una scuola d’inglese, sperando invano di imparare la lingua. Una delle partite perse della mia vita. A quell’epoca possedevo una Renault rossa, una R4 identica a quella che usarono i brigatisti per l’ultimo viaggio del politico pugliese. Quando seppi dell’esecuzione, piansi.
Ha ancora senso parlare di destra e di sinistra?
Ha senso eccome per me la divisione tra i due mondi rimane semplice, fisiologica e irrinunciabile. Io mi sento di sinistra esattamente come prima. Però non credo più negli schemi e nelle bandiere. Chiunque si spenda per attenuare i privilegi o colpire l’evasione, per me è di sinistra. Qualsiasi foto, da Berlinguer a La Malfa, da Gramsci a Renzi abbia nel proprio Pantheon.
Quindi anche la battaglia di Grillo per rinunciare ai rimborsi elettorali è di sinistra?
Il contenuto sarebbe di sinistra, ma è chiaro che siamo nell’ambito dell’eterna campagna elettorale e del gesto schematico volto a ottenere il consenso, siamo nel campo della frase più breve e demagogica, nella sloganistica pubblicitaria che sta fagocitando qualsiasi forma di cultura e che in una parola potremmo definire berlusconismo. Come nel calcio, tutto è bar sport, tifo, bla bla bla e paraculaggine.
Il calcio piace anche a lei.
Quando ero bambino non c’erano le partite in tv e non andavo allo stadio perché non potevo permettermelo. Con gli amici giocavamo nel piazzale dei Musei Vaticani ed era un rito semplice. Due porte disegnate con il gesso. Poi la palla rotolava ed era tutto ciò che sapevo del pallone. Però sapevo un’altra cosa. Sapevo che quelli di Via Tunisi, la via limitrofa alla strada in cui abitavo, erano laziali. Allora in formazione, come i partigiani, molto prima dell’ammirazione per Falcao, dell’amore per Zeman, o della stima per Eriksonn, si andava a scrivere sui muri W la Roma. Sono romanista da sempre e la cosa mi è costata sofferenza. Si ricorda Roma-Lecce?
Lo scudetto perso in extremis nel 1986?
La condensazione di tutti gli incubi materializzati in un istante. Per noi romanisti la gara con il Lecce equivale all’incendio di una casa o al timore di finire in un burrone. Loro erano ultimi e noi stavamo per vincere il titolo. Gli spiriti del male si diedero convegno e perdemmo in casa per tre a due. Non era pensabile potesse accadere come oggi, l’ha detto Garcia, è impossibile che la Juve possa perdere lo scudetto. In realtà il tecnico della Roma ha detto anche altro: “Sono nel calcio da tanti anni e ho visto molte rimonte impossibili”. Altro non dico.
Torniamo al libro. In “La musica è pericolosa” lei parla della mania nazionale di mostrarsi controcorrente ad ogni costo.
L’elogio della stecca fuori dal coro è un vizio nazionale. Se ti opponi al nazismo e stecchi, sei un eroe e hai fegato. Ma se il coro canta bene, chi stecca sbaglia. E se ha l’ardire di vantarsene, è anche uno stronzo. Una stecca è una stecca. È un errore. Eticamente è un limite che confina con desiderio di protagonismo e narcisismo. Se non puoi andare a teatro senza desiderare di salire sul palco, covi un virus. Una malattia.
Renzi la convince?
Danilo Donati, un grandissimo artista, aveva un motto: “Chi sa fa. Chi non sa, parla”. In questo momento su Renzi non possiamo far altro che aspettare. Essere pregiudizialmente negativi o tifare contro come fa una parte d’Italia e come succede anche nel Pd, è stupido. Anche se chiedersi se dobbiamo continuare a farci governare solo da quelli che parlano bene, non è inutile. Le propongo un proverbio contadino che mi pare adatto: “Apparire e non essere è come filare e non tessere”.
A 68 anni, da che parte del mondo si sente? Tra quelli che filano o
tra quelli che tessono?
Ho glianni che ho e sto cercando di progettare bene quelli che mi restano. Devo mettere in conto rischio e pericolo. Ho letto un bellissimo libro di De Masi. Descrive gli emigranti che all’inizio del secolo scorso partivano viaggiando stivati, al riparo dallo sguardo dei ricchi disturbati alla sola idea di incontrare il povero. All’ora del desco, quando i signori andavano al ristorante, i disgraziati uscivano all’aria aperta e si dividevano tra chi correva a poppa per attenuare il truma del distacco nell’impossibile ritrovamento del profilo della terra natìa e chi andava a prua a intravedere il futuro. Ho capito chiaramente che voglio vivere come un uomo di prua. Guardando avanti, senza voltarmi indietro.