Eugenio Occorsio, Affari&Finanza 7/4/2014, 7 aprile 2014
SCHWARZMAN LO SHOPPING GLOBALE DEL SIGNORE DELLA “PIETRA NERA”
«Perché abbiamo cominciato solo ora a comprare in Italia? Beh, intanto perché la situazione generale è migliorata e poi perché solo ora in Italia si sono determinate le condizioni di libertà di mercato e di contendibilità delle aziende. Perlomeno, questa è la nostra impressione. Se queste condizioni già c’erano, vuol dire che abbiamo perso delle occasioni e che gli altri sono stati più scaltri di noi». Stephen Schwarzman, il re del private equity, fondatore e attuale Ceo di Blackstone, ha un’aria un po’ sorniona mentre scandisce queste parole di fronte a una platea di banchieri, amministratori delegati e analisti attentissima e sicuramente ammirata, riunita a Cernobbio per il Forum Ambrosetti Finance. «Parliamoci chiaro: perché qualcuno compri occorre che qualcuno venda davvero». E i manager privati e pubblici prendono nota: le acquisizioni del 20% di Versace per 210 milioni di euro e del palazzo del Corriere della Sera in via Solferino per 35 milioni, perfezionate nei giorni scorsi, sono destinate a non restare isolate. Sono due operazioni che rappresentano il doppio binario su cui si muove Blackstone: il private equity e l’immobiliare. «Il private equity è sempre più importante in America, e lo sta diventando nel resto del mondo occidentale, perché permette alle medie aziende di intraprendere cammini di finanziamento diversi da quelli tipici bancario, azionario e obbligazionario, con operazioni che finora erano riservate solo ai grandi». Ora dove investirete? «In America, in Europa e in limitatissima quota in qualche mercato asiatico». Come dire, alla larga dagli emergenti.
Blackstone ha chiuso un 2013 da record. Fra private equity, fondi d’investimento e real estate, questa macchina da soldi ha un attivo di 266 miliardi di dollari in gestione, il 63% in più dell’anno scorso. Per l’anno ha contabilizzato 6,6 miliardi di fatturato, e 3,5 miliardi di utile netto. Il gruppo è un’impressionante fucina d’affari. Schwarzman l’ha definito qui a Cernobbio una società per la gestione del risparmio privato in modo attivo. Ma è molto di più. Di sicuro è una potenza lobbystica. Lui in persona non perde occasione per esporsi, incorrendo anche in gaffe clamorose. Nel pieno delle discussioni sulle riforme finanziarie post-crisi, definì una legge sulla tassazione degli utili composti «una mossa di Obama pari all’invasione di Hitler della Polonia». Si è scusato umilmente, ma per riguadagnarsi il saluto del presidente ha dovuto annunciare un dono personale di 100 milioni per creare un programma di borse di studio, lo Schwarzman Scholars. Quando ha aggiunto altri 200 milioni di dollari per un’analoga iniziativa alla Tsinghua University di Pechino ha incassato anche le lodi del presidente cinese Xi Jinping. Ma intanto la legge, soprannominata “Blackstone Law” è stata ampiamente emendata per renderla più lieve.
«Il segreto del private equity si chiama innovazione», spiega Schwarzman alla platea dell’Ambrosetti. Innovazione non nel senso di tecnologia ma di attivismo. Essere pronti a saltare in un filone di affari appena se ne intuisce la potenzialità. E a entrare in un mercato nuovo, come appunto ora in Italia. Eppure anche Schwarzman ha avuto un momento di sbandamento. Era successo che Blackstone era entrata in Borsa - per una volta con scarso tempismo - a fine 2007. Quando piombò su Wall Street la batosta della Lehman, proprio la banca dove Schwarzman aveva cominciato a lavorare, l’azione crollò da 31 dollari sotto quota 10, dove rimase un bel po’. Finché, nel 2010, la svolta. Schwarzman decide di investire nel mattone. Lo fa da par suo: un esercito di compratori scatenato in tutto il mondo alla ricerca di case d’occasione, di prezzi stracciati visto che il mercato immobiliare era in crisi un po’ dovunque, di palazzi per uffici pignorati, di alberghi che avevano dovuto chiudere per la recessione. E ovunque la stessa tecnica sperimentata con il private equity: un ingresso nella proprietà, un’iniezione di liquidità e managerialità, un rapido risanamento e poi la vendita. Con alcune peculiarità: in America possiede 40mila abitazioni che dà in affitto. Risultato, il titolo ha preso il volo (vedere grafico) e la divisione real estate è oggi la più potente dell’intero gruppo con 79 miliardi di attività in gestione. Nel 2013, anno ancora difficile per il real estate, il portafoglio si è rivalutato del 31%. Il capo della divisione Jon Gray è diventato miliardario a sua volta (1,4 per la precisione) oltre che il più accreditato successore alla poltrona di Schwarzman, che comunque a 67 anni non ha nessuna voglia di andare in pensione.
Blackstone intanto non ha smesso la sua attività di comprare, risanare e rivendere aziende manifatturiere. Nei settori più diversi. Ha appena investito 200 milioni nella Crocs, il produttore di scarpe casual. Ha rilevato la Vivint, che fa apparecchi per la sicurezza domestica. Ha investito nella Llog (attrezzature per i pozzi petroliferi), ha messo ben 1,5 miliardi nella Cheniere (rigassificatori), ha comprato il 45% della gloriosa tedesca Leica, è entrata nelle tecnologie per la sanità con Emdeon, nell’abbigliamento da montagna con Jack Wolfskin, nell’alimentare con Pinnacle, perfino nell’artigianato da bric&brac da provincia americana (cesti, tovagliette, cuscini) con Michael Stores, nei parchi a tema con SeaWorld (che ha appena quotato in Borsa) e Merlin Entertainments. Mancava la moda, ed è arrivato ora Versace.
Schwarzman viene da una modesta famiglia ebraica di commercianti di Filadelfia. Diplomatosi alla scuola pubblica Abington, riuscì a vincere una borsa di studio per Yale dove incontrò George Bush. Oltre a condividerne le idee politiche, entrò con lui nella Skull and Bones Society, la potente “consorteria” universitaria che l’aiutò tanto per cominciare a finanziarsi la business school ad Harvard. Era il 1972: il primo lavoro alla banca d’investimenti Donaldson, Lufkin & Jenrette dove diventa managing director a 31 anni, poi il passaggio nel team merger & acquisition di Lehman, infine nel 1985 il salto con la fondazione di Blackstone insieme con Peter Peterson, che essendo stato ministro del Commercio con Reagan forniva i necessari appoggi politici. Quelli finanziari li metteva lui.
Però perfino Schwarzman ha la sua bestia nera. Si chiama Apollo. Quando alla fine dell’anno scorso accompagnò la Hilton in Borsa dopo averla rilevata e risanata, la Blackstone guadagnò 9,5 miliardi di dollari in plusvalenze: un’enormità ma non il record perché negli stessi mesi la rivale Apollo Global Management con la Ipo per l’azienda chimica LyondellBasell Industries si portò a casa 10 miliardi. Quando Schwarzman ha reso noti i suoi guadagni nel 2013 sembrava aver sbaragliato tutti con la bella somma di 452,7 milioni di dollari (il doppio dell’anno prima), e invece di lì a poco Leon Black, Ceo di Apollo, ha annunciato di aver ricevuto uno stipendiuccio di 546,3 milioni. E quando Forbes ha pubblicato la lista dei miliardari, Schwarzman con 10 miliardi di fortuna personale è stato preceduto di una decina di posizioni dall’odiato Black. Eppure, rimane il personaggio più in vista, più significativo e rappresentativo di questo mondo a parte, quello del private equity newyorkese. Un mondo dove quelli che hanno guadagnato meno sono i due cugini Henry Kravis e George Roberts con 160 milioni cadauno, mentre i tre soci di Carlyle – Bill Conway, Daniel D’Aniello e David Rubenstein – si sono spartiti 749 milioni di profitti personali nel 2013. Insomma quando ci scandalizziamo per i superstipendi dei banchieri, cosa dovremmo commentare pensando che il più scandaloso di questi, i 28,5 milioni andati a Jemie Dimon di JP Morgan Chase, è diciannove volte inferiore a quanto incassato da Mr. Black?