Andrea Greco, Affari&Finanza 7/4/2014, 7 aprile 2014
MONTEPASCHI SENZA SIENA A COSA PUNTA IL “TRIO DEL 9%”
Sta per nascere una nuova Siena bancaria dalle ceneri della vecchia. Ed è un fatto che pochi avevano previsto. Intanto perché poteva andare peggio, molto peggio: ma il non del tutto atteso +50% del Monte dei Paschi in un marzo di grazia borsistica permette di raccontare un’altra storia. Inoltre perché le compravendite colossali recenti sul mercatino delle pulci azionarie fanno intravedere - in vista della ricapitalizzazione che cristallizzerà gli assetti - un azionariato inedito per la banca, quasi da public company alla ricerca di un equilibrio tra istanze del mercato e del territorio. In questa ricerca, in questo equilibrio, andrà anche compresa la tenuta dei vertici della banca, in scadenza tra un anno ma sottoposti a una “conferma lunga” che comincia virtualmente il 1° luglio.
Dopo cioè che i fondi dell’aumento saranno stati incassati e utilizzati per pagare la quota di interessi da 360 milioni sui 4,07 miliardi di Monti bond, evitando la calata del Tesoro nell’azionariato di Rocca Salimbeni.
Dando per scontato che chi ha comprato nelle ultime settimane seguirà l’aumento da 3 miliardi per la propria parte, tutta la nuova storia senese scaturisce dall’analisi del nuovo azionariato. Che allo stato è guidato dal patto tripartito al 9% tra Fintech, Btg Pactual e Fondazione Mps. Segue (anzi precede essendo in solitudine) il fondo Usa BlackRock, con una quota ufficiale del 5,74%, ma che secondo indiscrezioni potrebbe essere fino all’8% (il prossimo obbligo di comunicazione è quota 10%). Quindi i soci francesi di Axa, con circa il 4% e un consolidato rapporto commerciale nella bancassicurazione. Poi Jp Morgan, con un 2,53% storico, che potrebbe venire affiancata dal fondo hedge Och-Ziff, acquirente del bond fresh Mps deprezzato e di altre opzioni e accreditato di un 2,5%-3% del capitale. Infine c’è un 1% rimasto agli Aleotti tramite Finamonte, e non è chiaro se usciranno completamente o no dall’azionariato.
In un conto arrotondato per difetto siamo già a un 25% di nocciolo duro, che riduce i rischi di mercato della ricapitalizzazione e che vorrà dire la sua nella gestione della banca. Con quali modi e stili, è tutto da vedere. BlackRock ha una storia di silenzio e passività, come ha ricordato al Sole 24 Ore il country manager italiano Andrea Viganò: «Mai abbiamo chiesto o chiederemo di avere un rappresentante nel cda di una società quotata, e mai facciamo azioni concertate, tra i nostri diversi fondi gestori di quote o con altri investitori». Il leader mondiale degli investitori istituzionali, che ormai è socio primario delle maggiori banche italiane (l’ultima “chiamata” è sul 6,8% di Banco Popolare) sembra tra quanti non chiedono una governance per cambiare le cose: se i risultati di medio-lungo termine non lo soddisfano, vende e investe altrove.
Tutta diversa l’impostazione dei pattisti sul 9% di Mps: il fondo messicano e la banca d’affari brasiliana paiono avere un approccio e caratteristiche più speculative, di chi compra basso per rivendere tempo dopo con profitto. E ancora diversa l’ottica della Fondazione, che ha rischiato seriamente la bancarotta per difendere, tra il 2008 e il 2013, dapprima “quota 51%” nell’istituto conferitario, poi la soglia Opa, quando questi presidi non erano più congrui alla situazione patrimoniale dell’ente né alla prudente e diversificata gestione del suo patrimonio. Il nuovo patto prevede espressamente la presentazione di una lista di consiglieri nel Monte del futuro, con tre nomi - tra cui il presidente - scelti dall’ente guidato da Antonella Mansi e tre - tra cui l’ad - dai pattisti sudamericani. Ma questo scenario vale solo se il patto al 9% sarà effettivamente la lista più votata nelle prossime assemblee; e soltanto se lo statuto della banca che lascia la metà dei 12 consiglieri alla lista con più voti non sarà modificato.
Un primo confronto, anche solo formale, tra gli azionisti avverrà nell’assemblea Mps del 29 aprile, dove però l’ordine del giorno è bilancio, relazione sulle remunerazioni e modifiche allo statuto per riequilibrare le quote di genere nel cda e nel collegio sindacale. Tecnicamente, non c’è più tempo per integrare l’odg assembleare. Né pare sensato che ci siano movimenti o grandi confronti tra soci, e tra questi e il management, fino a ricapitalizzazione conclusa. L’aumento, specie se l’euforia borsistica non cambia di segno, non dovrebbe essere un problema. Chi ha già comprato lo rifarà, il consorzio guidato da Ubs e Mediobanca ha già garantito tutto l’inoptato, il prospetto sarà semplicemente aggiornato rispetto alle bozze di quello per l’aumento “rinviato” dalla Fondazione a dicembre, e dovrebbe andare in Consob subito dopo il cda del 14 maggio, per un avvio dell’operazione il 19 o il 26 maggio e la chiusura per fine giugno.
Da luglio, invece, si entrerà nella fase nuova, in cui l’ad Fabrizio Viola lascerà il posto, sotto la luce di scena, al presidente Alessandro Profumo. Per l’ex banchiere di Unicredit si prepara una stagione delicata, in cui sarà chiamato a rinserrare le file dell’azionariato, e ad agevolare la continuità del management, presupposto della fattiva realizzazione del piano di ristrutturazione 2013-2017, con cui generare utili per 900 milioni (e relativi dividendi) fra tre anni. Rimessa in sicurezza la banca e restituita buona parte dei Monti bond (a questo serve l’aumento) si tratterà di uscire dalle griglie severe imposte dall’Ue agli istituti sotto aiuto di stato, e fidelizzare i dirigenti, cui la Commissione ha messo un tetto di 500mila euro di remunerazione (già ridotta «del 47% sulla parte fissa e del 54% sul totale» rispetto ai piani 2011). Tuttavia una parziale concessione di Bruxelles ha permesso all’ad di incassare 1,79 milioni l’anno scorso, di cui 1,39 per la carica di direttore generale; a Viola la banca ha poi riconosciuto «un importo transattivo da 1,2milioni da ricevere alla sottoscrizione degli impegni vincolanti per l’aumento di capitale», contrattualizzati un mese fa. Nel compiere questi uffici, Profumo dovrà anche ricostruire un rapporto fiduciario con gli azionisti locali e con Mansi, rapporto sfilacciato dopo il testa a testa assembleare di tre mesi fa, quando la proposta di aumento immediato fu bocciata e rinviata dalla Fondazione in forza del 33% che ancora possedeva. Ed è pleonastico osservare che dalla riuscita di questi uffici dipenderà la conferma di Profumo nel 2015.
Quanto a Viola, dovrà vedersela soprattutto con i profitti e i soci del mercato. Ma anche lui dovrà lavorare in salita, perché il fenomenale rimbalzo borsistico di Mps ha ribaltato lo scenario: da griffe bancaria sottovalutata a titolo tra i più cari in Italia, addirittura in Europa. Lo dicono i multipli: il valore del libro tangibile per Mps si situa a 0,19 euro, e ai prezzi attuali di 0,28 euro siamo a 1,47 volte. Le banche italiane, dopo una ripresa brillante (ma non quanto a Siena) hanno riacciuffato la parità in Borsa, rispetto al valore di libro depurato da avviamenti. Il Monte è già altrove, sui lidi di una Bnp Paribas per dire. A 3,3 miliardi di capitalizzazione, più 3 dell’aumento, la Rocca dovrebbe già guadagnare 775 milioni di euro per quotare attorno a dieci volte gli utili. Non per caso da settimana scorsa sono tornate a salire le operazioni di vendita allo scoperto. Tra i primi, e con un repentino cambio di ruolo - per settimane, a cavallo di Natale, fu tra i potenziali compratori in cordata di Mps dalla Fondazione, a valori attorno a 0,14 euro) c’è Davide Serra, che ritiene a questi prezzi Mps sopravvalutata in base al fatto che le coperture sui crediti sono inferiori a quelle delle prime della classe Unicredit e Intesa Sanpaolo, e per allinearvisi la banca senese avrebbe bisogno di circa 3 miliardi in più di patrimonio, oltre a quelli che s’appresta a chiedere prima dell’estate.
E insieme al fondo Algebris di Davide Serra (che ha uno 0,93% short) le posizioni corte su Mps riguardano ormai Wellinton Management (0,76%), Odey Asset Management (0,74%). E la volatilità implicita sull’azione senese, ancora vicina al 50% e su livelli doppi rispetto alle blue chip bancarie domestiche, ne fa ancora una preda ambita dai cacciatori di affari di breve momento sui listini. «Ormai Mps è tra le banche più care in Europa e sta diventando un’idea per gli short - racconta un operatore - a patto di riuscire a trovare le azioni in prestito, cosa non facile perché tutti vogliono andare a vedere che succede in assemblea».