Marco Panara, Affari&Finanza 7/4/2014, 7 aprile 2014
CREDIT CRUNCH, LA STRETTA È FINITA
L’annuncio della svolta è arrivato dalla televisione. Non dai telegiornali: dalla pubblicità. Dopo un paio d’anni di silenzio Unicredit e Intesa SanPaolo a livello nazionale e le popolari a livello locale, hanno cominciato a inondare il teleschermo di spot. Per vendere cosa? Mutui. E’ il segnale che i soldi ci sono e si può ricominciare a prestarli. Ovviamente a cominciare da quella parte della clientela che tradizionalmente li ripaga, le famiglie, e attraverso un prodotto che contiene in se la garanzia, attraverso l’ipoteca sull’immobile il cui acquisto si va a finanziare. Il mercato dei mutui già si era mosso a partire da settembre dello scorso anno, poi nel primo trimestre del 2014 la crescita si è fatta più sostenuta e siamo tornati ai livelli del 2012.
In effetti qualcosa è cambiato. Nei piani industriali che hanno accompagnato la presentazione dei bilanci 2013, quasi tutte le principali banche hanno annunciato l’intenzione di aumentare il credito, per un ammontare che di qui al 2017 dovrebbe essere di oltre 70 miliardi.
Aumenteranno le erogazioni Unicredit, Intesa San Paolo, il Banco Popolare, la Popolare di Milano e tante altre, l’unica che prevede invece di ridurlo è il Monte dei Paschi, di una ventina di miliardi nel triennio.
Quello che è successo, e che le campagne pubblicitarie confermano, è che alcuni degli ostacoli strutturali che avevano bloccato il sistema negli ultimi due anni cominciano ad essere rimossi. Il primo problema era il capitale, insufficiente a soddisfare i requisiti previsti da Basilea III e troppo basso anche per i mercati, che infatti da una parte hanno depresso i corsi dei titoli del settore e, dall’altra, hanno smesso di prestare soldi alle aziende di credito italiane (in questo caso soprattutto per la crisi dei debiti sovrani e l’elevata percezione del rischio Italia). Ora questo problema è per i grandi istituti superato e per buona parte di quelli medi in via di superamento. Nelle pipeline del sistema ci sono aumenti di capitale per circa dieci miliardi, varati per mettersi a posto in vista della revisione della qualità degli attivi e degli stress test della Bce, ma che nella sostanza rimettono il sistema in condizione di ricominciare a fare credito. Se gli aumenti deliberati saranno sufficienti lo sapremo solo quando Francoforte darà i suoi giudizi finali, ma se gli assestamenti ulteriori dovessero avere un impatto limitato, l’ostacolo rappresentato dall’adeguatezza del capitale di vigilanza dovrebbe essere superato.
Il secondo problema strutturale era la liquidità. All’inizio della crisi le banche italiane a fronte di cento euro di raccolta diretta avevano 135 euro di impieghi, e la differenza era coperta da capitali internazionali raccolti sul “mercato all’ingrosso”. Con la crisi dei debiti sovrani quel mercato ha chiuso i rubinetti e solo grazie ai due Ltro della Banca Centrale Europea le banche dei paesi periferici sono riuscite ad andare avanti. Le italiane sono tra quelle che hanno preso di più e al momento restituito di meno, ma la lentezza nella restituzione sembra dovuta più al fatto che prendere quei soldi da Francoforte e comprarci titoli di stato consente un guadagno sicuro e facile, piuttosto che a problemi di liquidità. Come testimonia la riduzione degli spread, la percezione dei rischi sovrani dei paesi periferici si è allentata e i mercati hanno riaperto i rubinetti. Quel gap tra raccolta diretta e impieghi si è nel frattempo ridotto dal 35 al 15 per cento circa e si ridurrà ancora, ma non è più un problema in grado di bloccare il credito. La liquidità c’è, e continuerà prevedibilmente ad esserci.
Il terzo fattore della stretta creditizia è il costo del rischio, ovvero il fatto che una parte consistente dei crediti erogati non viene restituita. In un periodo di recessione molte imprese e anche molte famiglie non sono in grado di mantenere i loro impegni e le banche hanno pagato un prezzo salatissimo. Le sofferenze ammontano ormai a 160 miliardi di euro e i crediti deteriorati a 260. Ma anche qui c’è una novità: mentre le sofferenze continuano a salire, e continueranno ancora nei prossimi mesi, l’andamento dei crediti deteriorati si sta stabilizzando. Le banche sono riuscite in qualche modo a isolare la parte più rischiosa del loro attivo e cominciano a gestirlo con strumenti dedicati al fine di ridurre quella massa. Al contempo con gli ultimi bilanci hanno aumentato considerevolmente le coperture rendendo più facile la cessione di pezzi di portafoglio, aumentando così la possibilità di rendere il proprio attivo più dinamico.
La conclusione è che i problemi non sono risolti completamente ma siamo sulla buona strada e ci sono gli elementi per fare delle ipotesi su quanto avverrà nei prossimi mesi. Dal lato dell’offerta si può prevedere una certa prudenza finché non si conosceranno gli esiti della revisione della qualità degli attivi e degli stress test della Bce, ma questa prudenza inciderà soprattutto sui prestiti alle imprese, mentre una maggiore apertura continuerà ad esserci nel settore dei mutui alle famiglie. La domanda sarà simmetrica: quando il ciclo economico svolta, in genere parte prima la richiesta di mutui, poi la domanda di circolante da parte delle imprese e infine la domanda di credito per investimenti. Al momento sono ripartiti i mutui e la domanda di circolante dalle imprese che esportano, per le imprese che lavorano solo sul mercato domestico dipenderà dall’evoluzione della domanda interna che al momento ancora langue.
Le banche, dal canto loro, hanno una ragione importante per aumentare il credito: remunerare il capitali che hanno chiesto agli azionisti. Le banche devono tornare a guadagnare e per farlo devono spingere l’acceleratore sul loro core business che è quello di prestare denaro. Il problema è che devono imparare a farlo in modo nuovo, che implica capacità di valutazione delle imprese, dei settori e del rischio in gran parte perdute, e che richiede un diverso rapporto con le imprese. Vanno in questa direzione gli ingenti investimenti in formazione e riconversione del personale previsti nei piani industriali dei principali istituti.
Intanto però il rapporto tra banche e imprese sta già cambiando. Il primo cambiamento è che le banche preferiscono lasciar fallire le aziende decotte piuttosto che tenerle a galla artificialmente al fine di non far emergere le sofferenze. Un cambiamento di mentalità determinato dai nuovi requisiti di capitale di Basilea III e dalla revisione della qualità degli asset della Bce, ma anche dal fatto che il sistema ormai accetta che ci siano sofferenze elevate e preferisce che siano esplicite. Il secondo cambiamento è che la banca di fronte ad aziende già molto indebitate prima di aprire di nuovo il portafoglio comincia a pretendere che sia l’imprenditore stesso a farlo, oppure - se non ha i soldi necessari - che sia disposto a condividere il controllo con altri che li abbiano. Terzo cambiamento, le banche sempre di più vogliono condividere il rischio di credito con il mercato, e spingono per questo le imprese ad utilizzare di più strumenti come le obbligazioni. Operazione peraltro necessaria anche per ridurre quel gap ancora consistente tra raccolta diretta e impieghi senza strozzare l’economia.
Questi cambiamenti che sono stati determinati dalla crisi e dalle nuove regole, alla fine di un processo che sarà ancora lungo e faticoso potrebbero tuttavia consegnarci un sistema finanziariamente e anche economicamente più equilibrato. Molte aziende sono già uscite dal mercato e altre usciranno, ma quelle che resteranno in piedi dovrebbero avere più mezzi propri e, per la parte debito, essere meno dipendenti dalle banche e un po’ di più al mercato. Con un ulteriore effetto: le obbligazioni sono raccolta a medio e lungo termine, più stabile quindi. Ma una raccolta a lungo termine sul mercato richiede trasparenza sulla realtà economica dell’impresa e piani industriali per il futuro. E i piani industriali li fanno i manager, che fino ad oggi nelle imprese italiane hanno avuto assai poco spazio.
Potremmo scoprire che Basilea III e l’Unione Bancaria cambiando le banche ancora di più stanno cambiando le imprese.