Antonio Gnoli, la Repubblica 6/4/2014, 6 aprile 2014
EUGENIO SCALFARI – [“HO INSEGUITO L’IDEALE DI PERFEZIONE MA LA VERITÀ È CHE DANZIAMO SUL CAOS”]
I DATI anagrafici sono la sola cosa che non possiamo travisare: «Sono nato il 6 aprile del 1924». Oggi compie novant’anni. Ragguardevole età che Eugenio Scalfari soppesa con affetto e disincanto: «Non c’è modo di chiedersi quanto tempo ci resta. Bisogna vivere come se fosse sempre l’ultimo giorno pieno», aggiunge. Osservo le mani venate di azzurro e l’ampia poltrona che avvolge il corpo magro. La mansarda dove sostiamo, all’ultimo piano di un attico non distante dal Pantheon, è carica di libri. È un pomeriggio romano. Lieve. Che si smorza nel sole barocco: «Vorrei che tu vedessi la terrazza. Le città osservate dall’alto sono come gli amori visti da lontano, hanno meno difetti». Mi viene da pensare che in quelle parole si nasconda un lato romantico. Una moltitudine di emozioni. Mi sorprende l’energia. E la pienezza dei giorni di cui parla: «Vivono di una densità diversa rispetto al passato e sono trafitti da pensieri ulteriori», precisa, con un velo di sorriso.
Quali pensieri?
«Intorno alle condizioni del tuo corpo. Lentezza, fragilità e quella sensazione che il tempo non lavori più a tuo favore».
Ma non necessariamente contro.
«No, infatti. Siamo animali simbolici e desideranti: costruiamo mondi, relazioni. Viviamo di immaginazione e di futuro. Ma c’è sempre un limite: un segno ineludibile. Un calcio in faccia alla realtà. Ho letto, da qualche parte, che l’esistenza della morte ci obbliga a non essere perfetti».
Hai mai teso alla perfezione?
«È un’ideale. O almeno così per lungo tempo l’ho pensata. La verità è che danziamo dentro il caos».
Cercando un senso e un ordine?
«Cercando, certo. Ma dubito che la perfezione sia di questo mondo».
Le tue incursioni nel cristianesimo e nella fede farebbero pensare a un bisogno di chiarezza ulteriore.
«Fa parte del bagaglio di un buon laico interrogarsi sulle grandi questioni che sono teologiche ma anche filosofiche. Resto un non credente».
E questo papa?
«Questo papa cosa?».
Così diverso.
«È la Chiesa che ti sorprende».
Monarchia seria.
«Le istituzioni vere, forti, collaudate sanno forse reagire meglio alla crisi dei tempi».
Cosa ti sorprende?
«L’assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico».
Ed è un bene?
«La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità. Qualche tempo fa ero ricoverato per una polmonite. Verso la fine della mia degenza mi annunciano una sua telefonata: c’è il papa in linea, mi dice l’infermiera. Non so come l’abbia saputo. Prendo la chiamata. Mi chiede: come sta? Rispondo: molto meglio. Lei non ha risposto, replica. Avverte dolori? Ha la tosse? Come si sente? No, no, sto bene, dico io, apprensivo. Allora auguri. E mette giù il telefono».
Sbrigativo ma efficace.
«È la naturalezza della sua parola e del comportamento che mi colpiscono. Insieme alla dolcezza e alla partecipazione all’altro».
È stato così con qualche altro papa?
«Non ne ho conosciuti molti. Ma li ho criticati quasi tutti. In particolare Pio XII. Ora che mi ci fai pensare ricordo un’udienza pubblica cui fui ammesso con mia madre. Avevo quattordici anni. Poco dopo ci saremmo trasferiti da Roma a Sanremo».
Che anno era?
«Il 1938. Mio padre fu chiamato a dirigere il Casinò della città. Era avvocato. Ma gli piacevano le donne e un po’ le carte. Io fui iscritto al liceo Cassini. Arrivando dal Mamiani temevo che non mi sarei adattato facilmente ».
Alludi a un certo provincialismo.
«I piccoli centri sono così. Mi avevano soprannominato “Napoli”. Agli occhi della classe incarnavo il meridionale. Tra l’altro non ero mai stato a Napoli».
Una forma di razzismo?
«Blando, goliardico. Ma anche fastidioso. Smisero alla fine del primo trimestre. Nel frattempo si era formato un gruppo di studenti animato dagli stessi interessi culturali. Nella classe c’era Italo Calvino. Diventammo compagni di banco. Entrambi ci mettemmo a capo di questo gruppo. Ne sollecitammo gli aspetti più originali, le curiosità più riposte, le letture meno convenzionali. Italo disse che tutto quello che ci stava capitando accadeva nel nome di Atena, la dea dell’intelligenza e della Polis».
Il mondo greco contro quello romano vagheggiato dal fascismo?
«Eravamo studenti e non c’era un contrasto così netto. Ma ci sembrava di aver costruito una cultura parallela e autonoma rispetto a quella sviluppata dal fascismo».
Ma tu eri fascista?
«Convinto, e quando nell’inverno del 1943 il vicesegretario del partito Carlo Sforza mi cacciò dai Guf caddi, per alcuni giorni, in una specie di depressione».
Non riesco a immaginarti affranto.
«Era accaduto tutto in un attimo. Sforza mi contestò violentemente alcuni articoli che avevo scritto per Roma fascista. Mi strappò le mostrine e mentre mi sollevava da terra tenendomi per il bavero della divisa gli guardavo atterrito i polsi delle mani: tanto grandi da sembrare le cosce di un uomo. Ad ogni modo fu così che cominciai a rendermi conto che un’altra società era possibile. E che gli anni del liceo e le amicizie strette allora non erano passati invano».
Come spieghi quel mondo parallelo di interessi e letture che poco avevano a che fare con il fascismo?
«Negli ultimi anni in cui ho diretto Repubblica e in quelli successivi ho molto intensificato la mia ricerca letteraria, filosofica e religiosa. All’inizio qualcuno si sorprendeva di questi miei interessi in un certo senso lontani dal giornalismo. Dimenticando così che le mie prime letture furono ampiamente letterarie e filosofiche. Ricordo la mia prima lettura al liceo: Il discorso sul metodo di Cartesio. La chiarezza espositiva del testo, unita all’idea che il pensiero ha bisogno di regole, mi formò nel profondo. Tanto è vero che il mio approdo successivo all’Illuminismo non sarebbe stato così convinto senza Cartesio».
In questi anni il tuo entusiasmo per il secolo dei Lumi si è un po’ raffreddato. Hai spinto in primo piano figure come Montaigne che relativizza la ragione, o come Nietzsche che la distrugge. Sei giunto alla conclusione che il mondo non era solo progresso e felicità?
«Sai, non è che gli illuministi, a parte qualche incallito materialista, fossero tutti beatamente rivolti alle sorti progressive della ragione. Diderot era ben conscio delle trasformazioni e della crisi del proprio secolo. E lo stesso Voltaire non fu da meno. Per non parlare della sensibilità protoromantica di Rousseau».
Insomma non fu solo il secolo dell’ottimismo?
«È così. Poi, sai, nell’intraprendere il lungo viaggio nella modernità, ero consapevole che il quadro mentale che si delinea da Montaigne in poi è mosso, frastagliato, insidioso e perfino contraddittorio. Accennavi a Nietzsche. Non mi sento nicciano. Ma so anche che se vuoi occuparti di filosofia — ossia di una delle forme supreme dei modi del pensare — non puoi prescinderne ».
In che senso?
«Con lui si conclude la lunga epoca della modernità. Non è un fatto trascurabile. Mi colpiva che Nietzsche — nei primi giorni della sua follia, quando gli amici lo andavano a trovare a Torino — avesse accanto al lettogli Essaisdi Montaigne. Cioè la riflessione con cui ha inizio il viaggio nella modernità ».
Perché sostieni che quel viaggio si conclude con Nietzsche?
«Perché dopo di lui non si può più pensare e scrivere di filosofia in modo sistematico. Non esiste più un centro da cui si irradia tutto il resto. La perdita della centralità dell’uomo comporta l’infinita moltiplicazione dei centri».
Quindi ciascuno diventa centrale a se stesso?
«Gottfried Benn — che fu un ufficiale medico ma soprattutto un saggista di talento — fa un’osservazione interessante: ho capito perché Nietzsche scrive per aforismi. Chi non vede più connessione può procedere solo per episodi. E noi, aggiungo io, presi singolarmente siamo degli episodi. Io sono il centro della mia periferia che è, a sua volta, la mia circonferenza. Nietzsche comprese che i grandi sistemi filosofici erano tramontati».
Tutto questo non crea smarrimento?
«Cambia il quadro mentale, si modificano i punti di riferimento. Non puoi più oggi metterti a scrivere Il discorso sul metodo come fece Cartesio. Sarebbe ridicolo».
Devi mettere in gioco te stesso?
«Devi farlo: ogni riflessione che riguarda il mondo ti interpella in prima persona. E non solo perché Freud ha scoperto l’inconscio, ma perché la vita — la tua vita e quella degli altri — si è letteralmente scomposta. Lo capì benissimo Rilke quando scrisse il primo grande romanzo dell’ultima modernità: I quaderni di Malte Laurids Brigge ».
Un romanzo sovrastato dall’idea della morte e del ricordo.
«Fra tutti gli animali l’uomo è il solo che conosce l’invecchiamento e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, attraverso il ricordo».
Lasciare di sé una traccia?
«Per questo leggiamo Omero da tremila anni e Shakespeare da cinquecento. Ma anche il ciabattino del vicolo accanto vuole fare delle belle scarpe, non solo per lasciar prosperare la sua bottega ma perché così forse sarà ricordato».
È un trauma così forte essere dimenticati?
«In qualunque forma si presenti non amiamo l’abbandono. L’oblio esiste. E la traccia serve a combatterlo, a rinviarlo. Quello che abbiamo fatto di importante desideriamo che resti».
Sei molto narciso?
«L’ho anche scritto».
E vanitoso?
«È un sentimento che mi infastidisce. I nostri tempi sono dominati dalla vanità, come trastullo infantile. Ma essa è anche la forma più ridicola dell’ambizione. Che invece, entro certi limiti, è un tratto sano e importante del carattere».
Importante per il successo?
«Piùcheperilsuccesso tout court, perilmodo in cui lo persegui e lo ottieni. E soprattutto in vista di cosa».
Il potere ha bisogno della saggezza?
«Senza un po’ di saggezza si finisce dritti nella tragedia scespiriana».
E il tuo potere come lo giudichi?
«Noto in me una forte componente “paterna”. Capisco che la definizione è insolita. Ma credo mi corrisponda. Del resto, è il tratto del narciso: consapevole che solo amando gli altri può essere a sua volta amato».
La tua vita è stata governata dal “due”?
«Che cosa intendi?».
È un numero che ricorre spesso: due sono i giornali che hai fondato e diretto, due figlie, due mogli, due le grandi esperienze culturali che hai condotto. Mi fermo qui.
«Molte delle cose che elenchi sono legate al caso. Però è vero, sento che un “doppio” c’è in me. Mi piace immaginarlo legato ai desideri. Essi misurano la mia vitalità».
Ma anche le tue contraddizioni?
«Indubbiamente. Si può desiderare il bene del prossimo e avere cupidigia di potere, di femmine, di ricchezza. Non è il mio caso per fortuna».
E i tuoi desideri come sono?
«I desideri sono la sola cosa che la vecchiaia non ridimensiona. Per quanto mi riguarda sono stato un uomo plurimo e i miei desideri notevoli e spesso contraddittori. Ho dovuto conciliarli tra dolori e felicità».
Il desiderio allontana la morte?
«Per il fatto stesso di impegnare il futuro l’allontana. Ma anche quello che realizzi ti distanzia da essa».
È la società con i suoi meccanismi celebrativi?
«La festa e i riconoscimenti appartengono alla nostra antropologia. Perfino i miei novant’anni non sfuggono a questo impianto».
Non temi la monumentalizzazione?
«Dici l’eccesso di retorica?».
Sì.
«Certe cose mi imbarazzano e la pomposità, francamente, non mi piace. Ma non vorrei neppure che tutto si risolva in una malinconica ballata. Se è vero che uno dei modi per esorcizzare la morte è, come ti dicevo, nella traccia che lasci, questa la trovi anche quando si celebra un anno tondo e importante come i novanta».
Ti fa paura la morte?
«No, temo la sofferenza. Ma so che la morte è il nostro orizzonte. Ogni vera storia umana dovrebbe cominciare da qui, dalla fine».