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 2014  aprile 06 Domenica calendario

L’ALTRO DON CHISCIOTTE – [QUEL FINTO SEQUEL TRA I MULINI A VENTO UN GIALLO LETTERARIO LUNGO QUATTRO SECOLI]


IN UNA LUMINOSA GIORNATA primaverile di quattro secoli fa, Miguel Cervantes si vide recapitato un libro appena stampato a Tarragona. Il frontespizio recitava SECONDO TOMO DELL’INGEGNOSO HIDALGO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA, che contiene la sua terza uscita ed è la quinta parte delle sue avventure. Cervantesnon solo non l’aveva scritto, ma non ne aveva mai neppure sentito parlare. Un impostore aveva dato alle stampe ciò che lui stesso aveva promesso alla fine del primo volume: un seguito del Don Chisciotte. Aveva addirittura anticipato ai suoi lettori che il Cavaliere dalla triste figura si sarebbe recato ai tornei di Saragozza. Era passato un decennio, e in quegli anni Cervantes aveva scritto, brigato e pubblicato un po’ di tutto, ma non la continuazione di quel libro burlesco. E ora quello sfrontato autore dichiarava candidamente che il prosieguo era apocrifo: «Si permette la stampa di tante Celestine, ben si può permettere che vadano per i campi altri Don Chisciotte e Sancio».
Si firmava Alonso Fernandez de Avellaneda, un nome che evocava molte cose ma non ne indicava nessuna, proprio come fanno i falsari. La cosa peggiore è che Avellaneda sembrava conoscere personalmente Cervantes, tanto da prenderlo in giro per la sua più onorata disgrazia: da vero zotico, rammentava che lo scrittore non solo era vecchio (Cervantes aveva allora sessantasei anni) ma anche invalido. Faceva riferimento a quella mano sinistra che gli era stata storpiata ben quarantatré anni prima, quando un soldato musulmano gli aveva tirato una archibugiata durante la battaglia navale di Lepanto. Mascalzone, oltre che imbroglione: non sapeva forse che lui si era battuto come un leone per il loro stesso regno? Chi si nascondeva dietro quel nome?
Cervantes passò tutta la notte a leggere quell’opera borbottando e imprecando. Sembrava diventato anche lui pazzo come l’Orlando o, perché no?, come il personaggio bizzarro da lui generato. A ogni pagina, si ringalluzziva e si malediceva. Si ringalluzziva perché Don Chisciotte e Sancio Panza mormoravano parole e compivano gesta che sorprendevano lui stesso, come figli impropri che si emancipano dal loro genitore. Quel lestofante — pur rendendo Don Chisciotte talvolta borioso, mentre lui lo aveva modellato buono, saggio e generoso quando non afflitto dal delirio; e Sancio assai più rozzo del suo — aveva non solo amato i personaggi, ma ne aveva studiato bene l’indole. E, tuttavia, Cervantes rosicava, e tanto. E si malediceva: perché il suo primo libro aveva avuto successo, e già nel 1605 ne erano uscite almeno due edizioni pirata che non gli erano fruttate il becco di un quattrino. Perché non aveva proseguito su quella strada? Poteva forse giustificarsi con ciò che aveva scritto e pubblicato in quel decennio, ma tutto, sì, proprio tutto quel che aveva prodotto aveva avuto meno popolarità del Don Chisciotte. Cervantes sapeva che non era con le buffonerie che si diventa poeta a corte o si ottiene la protezione di mecenati, e quello che si incassa con le vendite era sempre troppo poco. Ne poteva scrivere pure dieci di tomi comici, non sarebbero bastati per andare a letto satollo.
A ogni pagina che girava, Cervantes si ripeteva la stessa domanda: chi è il truffatore? Trovava nel libro delle espressioni aragonesi, una sorta di impronta involontaria lasciata dall’imitatore. Poteva forse essere Jerónimo de Pasamonte, suo compagno di armi a Lepanto. Quel Jerónimo aveva scritto una strana autobiografia che circolava manoscritta, e nella quale si era addirittura appropriato delle gesta eroiche che lui, Cervantes, aveva compiuto a Lepanto. Un imbroglione nato e cresciuto che, per ripicca, lo scrittore aveva messo alla berlina nel primo volume del Chisciotte. Jerónimo si era forse vendicato per essere stato descritto come un derelitto galeotto? Gli era, tuttavia, giunta voce che fosse morto, e da molti anni. E poi, era sì aragonese, ma parlava male e scriveva anche peggio, mentre al libro che aveva in mano riconosceva qualche pregio. Forse il manoscritto era sopravvissuto alla sua morte, ma chi lo aveva ripulito e poi consegnato al tipografo? Anche se fosse stato Jerónimo, aveva dovuto avere almeno un complice per portare a termine l’impresa postumamente.
C’erano anche, nel libro, ripetuti elogi, espliciti e impliciti, a Lope de Vega. Che fosse stato proprio lui? Ma era difficile credere che il poeta, tanto acclamato a Corte, si fosse cimentato con un’opera fasulla. Forse aveva incaricato qualcuno dei suoi numerosi giovani e spocchiosi poetastri. Gli venne in mente Pedro Liñán de Riaza, ma anche lui era morto, appena quarantenne, da diversi anni. Il falso testo aveva anche accurate descrizioni di Toledo, e sospettò di un rimatore di quella città e pupillo di Lope, Baltasar Elisio de Medinilla. Dei tre, solo Pedro era aragonese. Ebbe un barlume e gli venne in mente Cristóbal Suárez de Figueroa: le due novelle inserite nel testo erano scopiazzate di sana pianta dagli italiani, e Suárez de Figueroa aveva vissuto nei possedimenti spagnoli in Italia, sia a Milano che a Napoli. Quando conversava, si abbandonava a battute grevi e escatologiche, simili a quelle che aveva trovato nel libro. Era stato lui? Ma i conti non tornavano: neppure Figueroa era aragonese.
Al diavolo l’imitatore, si disse infine. Don Chisciotte e Sancio Panza erano sue creature. E così Cervantes iniziò a riordinare le carte sul suo tavolo. Più frugava e più uscivano fogli: erano anni che, per distrarsi da più gravosi e tormentati incarichi, aveva buttato giù capitoli e capitoli del secondo volume. Mancava ancora il finale, e molti episodi dovevano essere rivisti. Ma il secondo volume, quello vero, il suo, era quasi pronto. Solo in quel momento ebbe la certezza che il seguito sarebbe stato più elegante, più divertente, più sottile non solo dell’imitazione, ma anche del suo stesso primo volume. Ovviamente non si lasciò sfuggire l’occasione di prendere in giro Lope de Vega e i suoi cicisbei, di scrivere che Suárez de Figueroa ricopiava gli italiani, e di offendere nuovamente l’oramai defunto Jerónimo de Pasamonte. Se il plagiario fosse stato uno di loro, aveva modo di vendicarsi. Nell’incertezza, tirò fendenti contro tutti loro. E poi vedendo i suoi eroi in quello specchio deformante, Cervantes capì meglio perché fossero stati così amati. Comprese che non era necessario spezzare il filo delle avventure inserendo novelle: Avellaneda lo aveva imitato anche in ciò, ma il diversivo, ora che Don Chisciotte e il suo scudiero erano noti al pubblico, non era più necessario.
Nel primo volume l’ironia scaturiva dal fatto che l’eroe tramutava locande in castelli e contadine in principesse, ma poteva l’espediente reggere per altri cinquanta capitoli? L’ignoto autore non lo aveva capito, e per mancanza di fantasia aveva in fondo replicato lo schema narrativo usato da Cervantes. Ma lui no, non aveva bisogno di ricopiarsi. Aveva in serbo un colpo di scena: far sì che i personaggi incontrati dal Cavaliere dalla triste figura sapessero già della sua pazzia perché avevano letto il primo volume. Con un trucco, che sarà chiamato dai critici letterari di qualche secolo dopo, meta-letteratura, quel tomo diventa il passaporto che trasforma Don Chisciotte e Sancio Panza in celebrità, così famosi che chi li incontra costruisce per burla inganni e incantesimi. Non è più Don Chisciotte a vedere giganti dove ci sono mulini, ma i suoi interlocutori che approfittano della sua follia per creare un mondo magico per proprio intrattenimento. Infine, riordinando le bozze, Cervantes si prese le sue rivalse non solo sull’oscuro scrittore, ma anche sul di lui libro: l’apocrifo entra nella narrazione e un suo personaggio dice di quel volume che è «privo di invenzione, povero di motti, poverissimo di livree, sebbene ricco di scempiaggini ». È Don Chisciotte stesso a leggere i libri a lui dedicati, tanto l’originale che quello fasullo. E, per far dispetto al libro contraffatto e al suo contraffattore, cambia direzione e non si reca più a Saragozza, ma vira per Barcellona.
Quando consegnò il manoscritto al tipografo, Cervantes aveva capito che le sue forze si stavano affievolendo. Non volle rischiare un altro seguito spurio e decise così di far morire il suo eroe prima di lui. Avvertì nel prologo il disoccupato lettore: «Io ti do ora un Don Chisciotte portato fino in fondo, fino alla morte e alla sepoltura, perché nessuno si arrischi a fargli dei nuovi certificati». Morte annunciata dell’eroe, ma consapevole e rinsavito: una fine più degna di quella riservatagli da Avellaneda, che lo fece finire rinchiuso nella casa dei matti di Toledo.
Quanto a chi si nascondesse dietro Avellaneda, Cervantes se lo chiese fino alla fine, e con lui l’oramai rinsavito Alonso Quijano, che sul letto di morte si rammentò dell’apocrifo narratore: «Prego i signori esecutori che, se caso mai venissero a conoscere l’autore di quella storia, gli chiedano scusa da parte mia quanto più cortesemente si può, dell’occasione che senza volerlo gli ho dato di aver scritto tante e così grandi sciocchezze quante in essa ne ha scritte, perché me ne vo’ all’altro mondo con lo scrupolo di avergliene dato motivo». Chi ha amato il Don Chisciotte, invece, non potrà che ringraziare il falsario per aver persuaso Cervantes a stringere nuovamente la penna nella sua unica mano.