Michele Di Branco, Il Messaggero 8/4/2014, 8 aprile 2014
COMMERCIO CONTO DA UN MILIARDO ALLE IMPRESE
SPENDING REVIEW
ROMA «Correggere, non sopprimere». Sotto attacco del governo, da Unioncamere concedono che qualche riforma bisogna pur farla. Ma proprio non ci stanno a cadere sotto i colpi della spending review. «Le camere di commercio – rivendicano dal quartier generale - non ricevono soldi dallo Stato e offrono alle imprese molti servizi». Sono 102 quelle sparse in Italia (e al conto si aggiungono le 70 che operano all’estero). Si tratta di «enti autonomi di diritto pubblico», vale a dire segmenti dello Stato con competenze promozionali, amministrative e di supporto alle aziende. Non ricevono soldi pubblici, ma è un fatto che non sono poche le imprese che, in questi anni, si sono lamentate dei costi di iscrizione. E per gli adempimenti burocratici connessi. È vero che la maggior parte delle attività commerciali e artigianali non spendono più di 100 euro all’anno. Per la precisione 88. Ma sono invece decine di migliaia gli euro versati dalle aziende più grandi. Tanto che si può arrivare fino a 48 mila. Il cosiddetto diritto annuale, secondo i dati Istat, grava sulle imprese italiane per circa 1 miliardo di euro all’anno. E anche se fino al 2007 il gettito era 200 milioni più alto, Palazzo Chigi ritiene che sia arrivato il momento di tagliare. L’attività più importante delle camere di commercio è la gestione del registro delle imprese che dal ’93 ha sostituito il registro delle ditte. Questa maxi-anagrafe ha la sua importanza. Non fosse altro per il fatto che attingendo ai suoi dati si possono ottenere informazioni sui bilanci delle società, sui carichi pendenti e sullo stato amministrativo. E presso le camere, che svolgono anche attività di conciliazione nelle diatribe tra aziende e privati, è possibile ricevere consulenza sugli adempimenti aziendali, consigli sull’attività di business e informazioni sui fondi per l’accesso al credito. Un fronte trasversale le difende. Da sinistra Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, dice no al passaggio di competenze ai Comuni in quanto si tratterebbe di «un indebolimento di azioni necessarie per semplificare la vita delle imprese». E sull’altro fronte il vicepresidente del senato Maurizio Gasparri attacca Matteo Renzi spiegando che «fare dei sindaci la panacea di tutti i mali è pressapochismo».
GLI ALTRI NEL MIRINO
Un’altra lotta per la sopravvivenza la stanno ingaggiando i 134 Consorzi di bonifica che governano 19 milioni di ettari di territorio italiano. Un universo che gestisce una rete idraulica lunga 181 mila chilometri con 754 impianti idrovori. Fin dalla nascita, era il 1933, questi enti pubblici autogestiti dagli agricoltori si sono occupati di molte cose: dalla costruzione di strade alla tutela dell’assetto idrogeologico. Poi alcune competenze sono passate alle regioni. L’ultima riforma è datata 1989. I consorziati sono oltre 7 milioni. E dall’Anbi (l’associazione che li rappresenta) fanno notare che indebolire questa rete di protezione in un paese in cui più dell’80% dei comuni sorge in aree a rischio idrogeologico, è un errore. Secondo loro studio servirebbero 8 miliardi per mettere in sicurezza l’intero territorio. Ma il governo ne ha investiti appena 1,5.