Danilo Taino, Corriere della Sera 8/4/2014, 8 aprile 2014
L’ITALIANA SONIA GANDHI IL VERO OSTACOLO PER I MARÒ
DAL NOSTRO INVIATO NEW DELHI (India) — La domanda che deve passare per la mente in questi giorni ai due marò trattenuti a New Delhi, e molto presente nelle analisi della diplomazia italiana, è questa: è meglio che le elezioni in corso in India le vincano Sonia Gandhi e il suo partito o è preferibile una vittoria (probabile) del leader nazionalista indù Narendra Modi? Se si guarda ai fatti, si può dire che l’italiana Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso oggi al governo, è stata di gran lunga il maggiore ostacolo a una soluzione concordata del caso. Politicamente ma — a quanto risulta al Corriere — anche direttamente.
Alla base del suo modo di agire c’è un fatto noto. L’essere italiana la penalizza. Viene indicata dall’opposizione come una straniera al potere grazie al matrimonio nella famiglia più eminente del Paese, i Nehru-Gandhi: già tre primi ministri dal 1947 e un quarto, Rahul, in corsa ora. Per gli avversari, un’usurpatrice: nei giorni scorsi Modi non ha esitato ad attaccare la sua italianità proprio in relazione al caso dei marò (a suo parere sarebbero trattati troppo bene). Sonia, dunque, si tiene lontana miglia da tutto ciò che ha a che fare con l’Italia e la possa fare sembrare non indiana a 360 gradi. Non parla mai in italiano, nemmeno se incontra un politico o un diplomatico in missione da Roma. Quando la vicenda dei due fucilieri di Marina è diventata un caso politico, dunque, è andata su tutte le furie — secondo un funzionario del Congresso.
Era il marzo del 2013 e il governo Monti decise (per un breve periodo) che i due marò, in Italia in licenza elettorale, non sarebbero tornati a Delhi a differenza di quanto promesso: in quel momento il caso diventò una disputa seria tra Italia e India. Sonia, trascinatavi per i capelli, ne colse immediatamente il rischio politico. Chiamò il primo ministro Manmohan Singh, che emise un comunicato durissimo. Diede indicazione al partito di trattare la questione con la massima fermezza. Protestò con Roma. Sostenne che il comportamento di sfida del governo italiano era «del tutto inaccettabile». E che nessun Paese può permettersi di umiliare l’India: «Devono essere usati tutti i mezzi per fare in modo che l’impegno del governo italiano (di rimandare i marò a Delhi, ndr) sia onorato», disse.
La Corte Suprema intimò all’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, di non lasciare l’India e sue fotografie furono mandate negli aeroporti. L’opposizione attaccò il governo. Ma furono i membri di quest’ultimo ad assumere le posizioni più intransigenti, con la parziale eccezione del ministro degli Esteri Salman Khurshid, preoccupato per la reputazione internazionale del suo Paese. La durissima e inaspettata reazione pretesa da Sonia raggiunse un obiettivo immediato: il 22 marzo 2013 Salvatore Girone e Massimiliano Latorre furono rimandati a Delhi. Ma anche uno di lungo termine: da allora, tutto il partito del Congresso e l’Amministrazione sanno che sulla vicenda non si può dare l’impressione di essere deboli, che l’italianità di Sonia non deve diventare una vulnerabilità politica. L’avvicinarsi delle elezioni indiane — iniziate ieri per proseguire fino al 12 maggio — ha reso ancora più rigida la prescrizione. «È stata innanzitutto la signora Gandhi a non volere cedere a un negoziato con l’Italia», dice un funzionario coinvolto nel caso.
Che esito elettorale preferiscano i due marò non ha senso chiederglielo. Il governo di Roma e la sua diplomazia a questo punto sanno però due cose. Innanzitutto, che ormai la vicenda non si chiuderà prima della fine della tornata elettorale indiana e della formazione di un nuovo governo. A quel punto, di fronte alla pressione di un possibile ricorso unilaterale italiano alla giustizia internazionale, il nuovo potere a Delhi potrà forse decidere di seguire una strada veloce per liberarsi della imbarazzante questione dei due Italian Marines. Secondo, sanno che se vincesse il Congresso, contare sulla benevolenza di Sonia sarebbe un’ingenuità; se vincesse Modi, come dicono i sondaggi, ci sarebbe almeno il vantaggio che non ha abiti italiani nell’armadio. Il guaio è che sapere due cose non significa sapere tutto.