Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 08 Martedì calendario

QUANDO DONETSK ERA STALINO: LA BATTAGLIA DEGLI ITALIANI


Oggi è Donetsk ed è stata scelta per dare il nome alla neo proclamata Repubblica popolare filorussa in Ucraina orientale. Ma nel 1941 si chiamava Stalino e fu una delle città dell’Unione sovietica conquistate dai soldati italiani del Csir, il Corpo di spedizione italiano in Russia, inviato da Mussolini nell’estate del 1941 a dar manforte ai tedeschi impegnati nell’operazione Barbarossa, la gigantesca operazione militare di invasione dell’Urss lanciata il 22 giugno del terzo anno della Seconda guerra mondiale.
A differenza di Stalingrado, la città non aveva preso il suo nome in onore di Stalin, il dittatore del Cremlino, ma dalla grande quantità di acciaierie che ne facevano un importante centro industriale. In russo acciaio si dice stal’ e la parola fu usata sia per il soprannome del rivoluzionario georgiano quando ancora cospirava contro lo zar sia per la città ucraina. Una coincidenza, insomma. Questo non impedì a Kruscev, una volta avviata la destalinizzazione in seguito al XX congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica, di cambiare il nome della città in Donetsk nel 1961.
Nell’ottobre del 1941 Stalino si trovava sulla direttrice di marcia del gruppo di armate Sud della Wehrmacht, l’esercito tedesco, gruppo da cui dipendeva il Csir (formato dalle divisioni Pasubio , Torino e Celere , oltre a una legione di Camicie Nere, la Milizia militarizzata del partito fascista e a varie unità ausiliarie). La grande unità tedesca era reduce dallo scontro di Kiev (agosto-settembre 1941), forse la più grande battaglia di accerchiamento della Seconda guerra mondiale, che aveva inferto all’Armata Rossa un colpo che tutti consideravano mortale: quattro armate cancellate, oltre 700 mila uomini uccisi o fatti prigionieri (che poi in gran parte sarebbero morti di fame e stenti), migliaia di cannoni e centinaia di carri armati distrutti o catturati. Sembrava, ed era, una vittoria grandissima. Sembrava, ma non era, una vittoria decisiva. L’Unione sovietica, con le sue enormi risorse umane e materiali, era ferita ma non domata e si sarebbe ripresa. Anzi, secondo alcuni storici militari, fu proprio la battaglia di Kiev, per la quale il gruppo di armate Sud era troppo debole tanto da dover essere aiutato dal gruppo di armate Centro, a distogliere le forze tedesche dall’obiettivo principale, Mosca, la cui mancata conquista impedì la conclusione della campagna prima della fine del 1941 e quindi, in ultima analisi, la sconfitta tedesca sul fronte orientale e poi la rovina della Germania nazista.
Ma nell’ottobre 1941 tutto questo apparteneva al futuro: le forze tedesche trionfanti volevano penetrare il più possibile in Ucraina e nel bacino minerario del Donetz, cuore industriale della Russia europea del quale volevano cominciare il prima possibile a sfruttare le risorse. L’obiettivo immediato era Kharkov, quello più lontano Rostov, la porta del Caucaso e dei suoi ricchi campi petroliferi. Ad attaccare Stalino fu la divisione Celere : un reggimento di bersaglieri, il Terzo, due reggimenti di cavalleria (Lancieri di Novara e Savoia Cavalleria, il secondo protagonista più o meno un anno dopo, nell’agosto del 1942, a Isbuscenskij, dell’ultima carica della cavalleria italiana), artiglieria a cavallo con pezzi che risalivano alla Prima guerra mondiale, un reparto di carri armati leggeri L35, le famigerate «scatole di sardine».
La presenza di reparti di cavalleria in una guerra passata alla storia per l’impiego massiccio dei carri armati non deve stupire. Sul terreno difficile del fronte orientale sia i tedeschi che i russi fecero largo impiego di truppe montate, non per eseguire cariche alla sciabola di tipo napoleonico ma per incursioni profonde nelle retrovie nemiche: unità sovietiche di cavalleria della Guardia parteciparono, quattro anni dopo, alla battaglia di Berlino. Stalino fu conquistata senza eccessive difficoltà e le truppe italiane continuarono ad avanzare verso Est e a combattere fino a dopo il Natale del 1941, quando il gelo impose una stasi. Non si erano mal comportate, tanto che il comando tedesco, già in crisi di materiale umano (secondo la moderna storiografia la Germania era, banalmente, troppo debole per attaccare l’Urss), chiese all’alleato italiano uno sforzo supplementare. Arrivarono altri soldati e il Csir si ingrandì fino a diventare, nel luglio 1942, Armir, l’Armata italiana in Russia che nell’inverno del 1942, sul Don, fu protagonista della tragica ritirata che mise fine alla presenza organizzata del Regio esercito sul Fronte orientale.