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 2014  aprile 08 Martedì calendario

CICCHE, INCURIA E VECCHI ARREDI LA VETRINA OFFUSCATA DI PALAZZO CHIGI


«E poi c’è questa, la nuova sede di Renzi». È il professore d’italiano a fare da guida, come da regolamento. I ragazzini fissano quelle finestrone che hanno visto tante volte in tv. Ma in gita c’è sempre qualcuno che guarda da un’altra parte: «Per terra è pieno di cicche di sigaretta», fa uno di loro al poliziotto appoggiato alle transenne provvisorie che stanno qui da quattro governi. «Colpa dei sanpietrini, si incastrano in mezzo» sorride l’agente. Il ragazzo non sembra convinto, il professore nemmeno. E il resto della piazza davanti a Palazzo Chigi li convincerà ancora meno. Per carità, il Grande degrado è altrove, ma di Grande bellezza qui neanche le tracce. E nemmeno dello stil novo tendenza Renzi, quel programma non scritto che va dal Pd versione cool al Paese che deve tornare a sorridere, passando per «l’arte di correre», il libro di Murakami applicato alle riforme. La scolaresca riprende il suo tour.
Dal palazzo sulla sinistra vengono giù pezzi di cornicione e hanno chiuso il passaggio con una rete da cantiere, quelle di plastica arancione. Attaccato alla Colonna di Marco Aurelio c’è un box in alluminio, che i giapponesi con la Nikon in mano non riescono neanche a crederci. Là dietro arrugginisce il parcheggio del bike sharing, senza biciclette perché le hanno rubate tutte e subito. Anzi, fatte a pezzi e rivendute al mercato di Porta Portese. Ecco, il bike sharing. Il sistema che funziona felicemente in 636 città del mondo a Roma è durato poche settimane. Quasi un avvertimento davanti alla «sede di Renzi», che da sindaco si faceva riprendere volentieri sulla sua bici blu con le ruote rosse. Qui si è dovuto portare una cyclette, piazzata davanti alla finestra dell’appartamento del presidente. L’affaccio è interno, la piazza sgarrupata non la vede. Ma in compenso dentro si oscilla tra l’austero e il délabré.
Portineria con i tornelli voluti da Brunetta, nel gabbiotto un tipo che fuma di nascosto. Poi lo scalone d’onore con il tappetto rosso e i lanternoni in bronzo del ‘600. Ed ecco la sala delle Galere, quella della cerimonia della campanella, che segna il passaggio di consegne tra un premier e l’altro. Frac con le code e papillon nero, si avvicina discreto Marcello Cammilluzzi, uno dei commessi dell’anticamera del presidente. È qui da più di 20 anni, attore non protagonista in quasi tutti i cambi di governo della seconda Repubblica. Tocca a lui porgere su un vassoio d’argento (per una volta non è una metafora) la campanella che il premier uscente consegna al suo successore. Hanno scelto lui pure l’ultima volta, per quei 30 secondi di gelo purissimo tra #enricostaisereno e il Rottamatore. Tende pesanti, poca luce, porte di quattro metri con pratiche maniglie ad altezza occhi, più in là un tappeto ormai scolorito. Sarà il ricordo di quella cerimonia ma il Palazzo sembra ancora più severo del solito, quasi lugubre. «Fa questo effetto a molti», dice paterno il commesso Cammilluzzi. «Ricordo il mio primo giorno di servizio, l’8 gennaio del 1992, c’era Andreotti. Entrai proprio qui, nella sala delle Galere, e vidi questo enorme lampadario di cristallo. È più grande della stanzetta dove lavoravo prima al Celio, l’ospedale militare. Per l’impressione volevo quasi andare via».
La prima sensazione di Renzi non deve essere stata diversa. «Ma almeno c’è un tavolo da lavoro?» ha chiesto ai commessi che lo accompagnavano verso il suo appartamento, quello «triste come una prefettura di provincia», secondo l’expertise di Vittorio Sgarbi. Corridoi, anticamere, broccati e paralumi. Più Borgia che Downing street. «Dicono che gli opposti si attraggono, ma non dicono mai per quanto tempo», sospirava Sarah Jessica Parker in Sex and the City . Ecco, qui l’attrazione è durata pochissimo. Renzi tiene la sua immagine ben lontana da ogni simbolo che rimandi alla palude. Impresa non facile in un palazzo con quattro secoli di storia, che nella Roma dei Papi si era guadagnato l’agile soprannome di «mole austro-vaticana». E non c’è solo la sindrome del broccato, come qualcuno la chiama. È che Palazzo Chigi non è esattamente un modello da smart city. La raccolta differenziata, per dire, si fa solo in parte: l’organico finisce insieme a tutto il resto. Ci avevano anche provato ma l’invasione di formiche, che l’estate scorsa sbucavano dal parquet al primo piano, ha suggerito di lasciar perdere.
Non è un caso che siano poche le immagini di Renzi qui dentro. L’ultima intervista tv l’ha data nella sala stampa al piano terra, colonne bianche e sfondo azzurro Europa. Ha guidato un consiglio dei ministri in jeans, e il suo posto a quel tavolo è sapientemente disseminato di evidenziatori gialli e arancioni. Piccole mosse di rupture . Il Palazzo osserva, prende appunti e aspetta chiuso nelle sue 184 stanze. Per il momento nessuna mossa per ingraziarsi il personale come fece Giulio Andreotti, quando tolse ai commessi quella targhetta al collo con la scritta Presidenza del consiglio che, dicevano, li faceva sembrare delle bottiglie di brandy. Ma anzi un piano di riorganizzazione e tagli da 15 milioni di euro l’anno. Le auto blu scenderanno da 53 a 15, e l’argomento viene ancora prima della Roma e dello scudetto nelle chiacchiere tra autisti nel cortile interno, quello che non si attraversa in diagonale perché porta male. Anche i 23 dipartimenti verranno sfoltiti e pure i loro capi cambieranno. La prima scelta non è esattamente nel segno della continuità: agli affari giuridici, tradizionale riserva di caccia per consiglieri di Stato, arriverà il comandante dei vigili urbani di Firenze, Antonella Manzione. Le sue foto in divisa hanno già fatto il giro degli uffici.
Sguardi bassi, atmosfera sospesa. Tutti in attesa di eventi. Anche per questo, almeno finora, non c’è stato il tradizionale assalto alle stanze, come ai tempi del glorioso duello del terzo piano tra i vice premier Massimo D’Alema e Francesco Rutelli. E nemmeno lo spostamento di arredi che accompagna ogni cambio di staff. Nel 1988 al consigliere diplomatico Umberto Vattani venne assegnata la stanza con il balconcino e le bandiere. Dietro la scrivania c’era un quadro con un cinghiale morente, davanti una tela con un naufragio, a sinistra una santa nell’atto di trafiggersi il cuore. «Sembrava non ci fosse scampo né per terra né per mare, né in altro modo», racconta lui. Chiese di spostarne almeno uno, la scelta cadde sulla santa. Forse è solo questione di tempo, spostamenti e traslochi arriveranno anche stavolta. Insieme alle limate a stipendi e collaborazioni esterne. «Noi faremo la nostra parte», dice un funzionario chiudendo la porta con un foglio appiccicato sopra: «Vietato entrare, per qualsiasi esigenza rivolgersi ai commessi». Lì all’angolo, nel corridoio, c’è una televisione accesa. «Non sparare, ti prego. Non sparare!». Nikita, il telefilm.