Claudio Magris, Corriere della Sera 8/4/2014, 8 aprile 2014
IL RIBELLE LEGALITARIO CHE PIEGÒ L’INGIUSTIZIA
Il ribelle, scriveva in un incisivo libro Vittorio Mathieu, è ben diverso dal rivoluzionario, anzi è il suo opposto. Il rivoluzionario rifiuta la legge del sistema in cui vive; vuole abbattere l’ordine vigente, che considera iniquo, per crearne uno nuovo e antitetico, fondato su altri valori e principi, su altre leggi. Il ribelle invece crede nella legge cui è sottoposto e nella cultura e nella società che la esprimono, ma non sopporta di vederla disattesa e violata, anche o soprattutto da chi la proclama e da chi dovrebbe applicarla.
Si ribella pure con violenza all’ingiustizia, ma in nome della giustizia e della legge; non per instaurarne una nuova, bensì per restaurare quella esistente e distrutta da chi dovrebbe difenderla e invece la tradisce.
La letteratura ha spesso narrato questa ribellione contro la legge in nome della legge e il tragico disordine che spesso ne consegue; ad esempio in uno dei più grandi racconti della letteratura universale, Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, drammatica e violenta odissea di un mercante di cavalli al tempo di Lutero, che, avendo subito un torto — peraltro modesto — da un nobilastro e non avendo ottenuto giustizia dall’autorità imperiale in cui crede fermamente, si fa brigante per restaurare la giustizia e si pone in guerra col mondo, devastandolo col ferro e col fuoco, persuaso di dover agire in tal modo ma anche di essere, ciò facendo, pure gravemente colpevole.
È stata soprattutto la cultura tedesca, in particolare quella nutrita di ethos prussiano (il medesimo che ha portato alla rivolta del 20 luglio dei generali contro Hitler), a sentire e a rappresentare con particolare forza questo tema e questo conflitto. È nota la storia del contadino che, venuto a diverbio col re di Prussia, il grande Federico, per un torto subito, ha fiducia che la sua protesta avrà ciò che le è dovuto, perché «ci sono pur sempre giudici a Berlino». Anche un altro famoso romanzo tedesco, La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig, divenuto poi marxista anche in nome di questa morale prussiana, ruota intorno al conflitto fra l’ordine, che bisogna rispettare per tutelare lo Stato e tutti i cittadini, e l’ingiustizia provocata da uno stravolgimento di quest’ordine, che esige la ribellione a sua volta colpevolmente lesiva del bene di tutti.
Una storia di una difesa accanita ma accanitamente legalitaria del proprio diritto vilipeso è quella — vera, storicamente accertata e priva di illazioni letterarie — che si è svolta in tutt’altra parte del mondo, retta da istituzioni barbare come la schiavitù. È una storia che viene dai Caraibi, da Puerto Rico; quella di uno schiavo e della sua lotta per il proprio diritto, garantito — solo in teoria — pure dall’inumano sistema basato sulla schiavitù.
Una storia rimasta sepolta per più di quattrocento anni nell’Archivio Generale delle Indie a Siviglia e ripescata soprattutto per merito di due studiosi, Jalil Sued Badillo e Angel Lopez Cantos. Il protagonista si chiama Pedro Carmona, schiavo di Juan de Almodóvar a Puerto Rico, nella prima metà del Cinquecento. La schiavitù dei neri (e di pochi indios) a Puerto Rico era una realtà economicamente assai importante e — nel quadro della crudeltà e dell’arbitrio che la caratterizzava, come dovunque prima e poi — in un vivace movimento, che vedeva pure casi di affrancamento, destinati a crescere nel tempo pure prima dell’abolizione della schiavitù, e un’attività economica di liberti intraprendenti. Nel complesso, una realtà nera in condizioni di feroce servaggio ma percorsa da fremiti, ricca di energie compresse ma destinate a erompere, umanamente e intellettualmente vitale ad onta delle catene.
Pedro Carmona era schiavo di Juan de Almodóvar, possidente della città di San Juan a Puerto Rico e ufficialmente registrato nel 1530 quale «proprietario», ovvero padrone di ventun schiavi neri (diciassette uomini e quattro donne) e di sei schiavi indios. Si occupava soprattutto di una miniera nei pressi del Rio Loiza e risiedeva nell’isola da diciotto anni, anni di turbamenti e disordini dovuti alla crisi economica che aveva indebitato molti coloni. Si sa che non sapeva scrivere. Fra i suoi schiavi c’era un giovane della Guinea, Pedro Carmona, alto nero e prestante, sposato con un’altra schiava, Isabel Hernández o Isabel de Carmona. Almodóvar, nel testamento, gli concesse, com’era nelle sue facoltà, la libertà, lasciandogli pure un cavallo morello, due giumente e centoventi pesos d’oro. Aveva nominato esecutore testamentario un eminente e ricco commerciante molto in vista nell’isola, García de Villadiego, il quale invece, in dispregio della certificata volontà del defunto, vendette Pedro e Isabel, come schiavi, a Hernando Alegre, legato per vincoli famigliari all’Inquisitore Generale delle Indie e divenuto poco dopo alcalde della città. Pedro, non si sa come, riuscì a recarsi a Santo Domingo per appellarsi all’alcalde di quella città, il quale si pronunciò negativamente, ordinandogli di ritornare a Puerto Rico dal suo (nuovo e, anche dal punto di vista della legge che regolava il sistema schiavista, illegale) padrone. Ritornato nella sua isola, Pedro Carmona fece istanza di ricorso al tribunale superiore, la Audiencia.
Il caso si ingarbuglia sempre più, cavilli formali pro e contro il ricorrente si intrecciano a contrastanti strategie e trucchi legali dei diversi giudici e presidenti che si succedono, giudizi contradditori danno ragione, mai definitivamente, all’una o all’altra parte. Finisce per non essere chiaro nemmeno chi siano i pretesi padroni dell’uomo dichiarato e divenuto secondo la legge libero, perché i vari Hernando Alegre, Melchior de Torres, lo stesso figlio degenere del suo liberatore e altri lo vendono, lo comprano, lo rivendono, mentre lui continua a trattare da solo con i tribunali. I nomi dei padroni, ex padroni, presunti e aspiranti padroni si mescolano in un confuso brusio, nomi di comparse interscambiabili, sui quali grandeggia invece, inconfutabile e protagonista, il suo, come un eroe sulla folla.
Nella sua memoria ritrovata secoli dopo nell’Archivio di Siviglia, Pedro Carmona contesta con straordinaria precisione giuridica e fattuale — stupefacente in uno schiavo uso a lavorare in miniera — le contraddizioni e le falsificazioni della parte avversa. Sottolinea come i suoi millantati padroni siano uomini influenti e potenti, che i giudici tendono a favorire per timore, ma non contesta mai il sistema, men che meno invoca la rivoluzione, la resistenza violenta. È molto più legalitario di Michael Kohlhaas, perché non pensa mai di farsi giustizia da sé. Non mette nemmeno in discussione il sistema schiavista. Semplicemente non si piega e si ribella alla sopraffazione, ma sempre in nome della legge e con strumenti giuridici.
Una notte, mentre è ancora in corso il processo, uno degli arbitrari padroni lo prende, insieme alla moglie, lo carica su una nave e lo porta nell’Honduras, ricco di miniere d’oro e attrattivo per i negrieri.
Ma Pedro Carmona non disarma e si appella a un’istanza ancor superiore, l’Audiencia de los Confines, dove nuovamente perde la causa, per gli intrighi di un ex padrone. Ma nell’Honduras Pedro Carmona pesca l’asso del gioco della sua vita ossia incontra Bartolomé de las Casas, il grande vescovo che, dopo aver lottato contro la schiavitù degli indios accettando quella dei neri, consapevole e pentito di questo suo errore, stava conducendo un’indomita battaglia contro il sistema schiavista. Las Casas capisce subito la verità e la forza d’animo di Carmona e si offre di pagargli il viaggio in Spagna e di accompagnarlo davanti al più alto tribunale dell’Impero, il Real Consejo de Indias, a perorare la sua causa, scrivendo egli stesso la petizione, assumendosi pure le spese del processo e impegnandosi in una sfibrante lotta avvocatesca, che vede ambigui e alterni risultati e infine la pilatesca scappatoia di rimettere la decisione al tribunale dell’Audiencia Centroamericana, intimando a Carmona di tornare, a spese di Las Casas, a Puerto Rico per ritrovare, ed esibire entro due anni, il documento attestante la sua condizione di uomo libero.
Qui finisce la storia, senza un vero finale — probabilmente il processo non fu mai concluso e non si sa più nulla di Carmona. Un uomo solo — no, non solo, la presenza silenziosa, costante e intrepida di Isabel accanto a lui è una forte storia d’amore — che si batte, in catene, «contro lo spaventevole disordine del mondo», come lo chiamerà Michael Kohlhaas. Un rivoluzionario direbbe che ha sbagliato a credere in una legge creata dai padroni degli schiavi. Forse era invece così intelligente da capire che, in quell’epoca e in quel mondo, una rivoluzione era impossibile e quindi sarebbe stata disastrosa. Forse, senza poter aver letto Engels, non voleva essere il protagonista di quella tragedia che, secondo il co-fondatore del marxismo, è ogni rivoluzione in anticipo sui tempi. Forse era semplicemente un uomo geniale, coraggioso e caparbio, una di quelle zucche dure contro le quali si spezza pure il bastone dell’ingiustizia.