Marcello Bussi; Andrea Pira, MilanoFinanza 5/4/2014, 5 aprile 2014
TUTTI VOGLIONO LO YUAN
CINA
A piccoli passi, come richiede la tradizione cinese, Pechino ha avviato il processo di liberalizzazione della finanza. Che nel breve termine comporta anche risultati spiacevoli, come i default. Venerdì 4 aprile è toccato al bond emesso da Xuzhou Zhongsen, una piccola società produttrice di materiali da costruzione, mentre all’inizio di marzo era stata Shanghai Chaori Solar Energy Science a non pagare gli interessi di un bond quinquennale.
Da tempo i mercati temono un’ondata di default, che non ci sarà: se negli Stati Uniti vige la consuetudine del too big too fail, figuriamoci in Cina. Se questo timore fosse davvero fondato, d’altronde, non ci sarebbe la corsa allo yuan che si è scatenata in Occidente. La fascia di oscillazione della valuta cinese è stata ampliata il mese scorso dall’1 al 2%. Se nel breve termine questo comporta un indebolimento dello yuan per dare una spinta alle esportazioni del colosso asiatico, con lo sgradevole corollario di dare un contributo alla deflazione in Eurolandia, si tratta soprattutto di un nuovo passo avanti verso la libera fluttuazione della divisa cinese.
Nei giorni scorsi il presidente cinese Xi Jinping ha compiuto un viaggio in Europa, senza mettere piede però in Italia. In questa occasione la Banca d’Inghilterra e la Banca del popolo cinese, l’istituto centrale della Repubblica popolare, hanno stipulato un accordo per l’istituzione di una stanza di compensazione per i pagamenti in renminbi, come è anche conosciuto lo yuan. Come sottolineato dal vicegovernatore dell’istituto centrale inglese, Jon Cunliffe, l’accordo rappresenta una pietra miliare negli sforzi di Pechino per l’internazionalizzazione della valuta cinese. Obiettivo che Londra sostiene con forza. Il 62% dei pagamenti in yuan fuori della Cina sono fatti a Londra, recitava una nota del Tesoro britannico. La piazza inglese si pone quindi in prima fila sul quadrante occidentale. La firma del 31 marzo è arrivata tuttavia dopo l’accordo raggiunto tre giorni prima tra la Banca centrale cinese e la Bundesbank per fare di Francoforte il centro della «moneta del popolo» in Eurolandia. L’annuncio è stato accolto con un certo disappunto da Parigi, anch’essa in gara per diventare l’hub del renminbi in Eurolandia (in corsa c’è anche il Lussemburgo). Per centrare il traguardo lo scorso novembre era andato in Cina l’allora ministro francese delle Finanze, Pierre Moscovici. Come sottolineato dal quotidiano economico Les Echos, Parigi contava di fare leva sul ruolo della Francia in Africa, continente dove i cinesi vantano importanti interessi. Ma al momento è stata superata da Francoforte, che oltre a ospitare la sede della Bce può contare soprattutto sul fatto che la Germania è il principale partner commerciale della Cina in Europa. La competizione sembra al momento non riguardare la Banca d’Italia, che pure ha dedicato un’analisi nel numero di gennaio del proprio bollettino al ruolo dell’internazionalizzazione del renminbi nelle riforme strutturali che la Cina sta mettendo in atto per una crescita più sostenibile. Con l’apertura delle camere di compensazione a Londra e Francoforte (ancora non sono ancora state decise le banche autorizzate a eseguire le transazioni), gli europei si dovrebbero quindi affrancare da Hong Kong, che funge da piazza off-shore. Le società del Vecchio Continente sarebbero inoltre invogliate a usare la moneta cinese per i commerci. L’accordo tra la Banca del popolo cinese e la Bundesbank è comunque la prova che, quando si tratta di affari veri, in Eurolandia ognuno è contro l’altro armato.
Lo yuan è sempre più usato per il regolamento di operazioni finanziarie e commerciali internazionali della Repubblica popolare. Dal 2010 a metà del 2013, per esempio, la quota di commercio di beni dalla Cina regolata in tale divisa è salita da una quota quasi pari a zero fino a superare il 10%. Come ha sottolineato lo studio della Banca d’Italia, salgono anche i collocamenti internazionali di obbligazioni denominate in renminbi in piazze diverse da Hong Kong, ossia Londra, Singapore e Taiwan. La Bce ha siglato lo scorso ottobre un accordo bilaterale di swap con l’istituto centrale cinese per l’acquisto e il successivo riacquisto reciproco di renminbi ed euro. Un modo di rassicurare gli operatori, un meccanismo di sostegno in caso di problemi improvvisi e temporanei nel mercato dello yuan legati a carenze di liquidità. Ma soprattutto, come ha osservato il bollettino di Bankitalia, un modo di rimarcare l’importanza sistemica dell’economia cinese.
di Marcello Bussi e Andrea Pira