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 2014  aprile 07 Lunedì calendario

BANCA MPS LA LADY FORTE DI SIENA


Il rammarico di Antonella Mansi è non avere terminato gli studi di giurisprudenza; ma i sei mesi finora vissuti alla presidenza della Fondazione Mps sono valsi alla giovane manager grossetana più di qualsiasi laurea o master.
Dallo scorso settembre, quando arrivò da outsider al vertice del disastrato ente di Palazzo Sansedoni carico di 340 milioni di debiti, è successo di tutto: l’aumento di capitale da 2,5 miliardi (poi alzato a 3) imposto dalla Ue a Mps per il via libera ai Monti bond; lo scontro con il presidente della banca, Alessandro Profumo, sulla data della ricapitalizzazione; il crollo del titolo che ha messo a rischio la stessa sopravvivenza della fondazione, visto che sotto i 12 centesimi le banche creditrici avrebbero escusso tutto il 33,4% di Mps in pegno; il muro contro muro all’assemblea del 28 dicembre, con la quasi 42enne Mansi (il prossimo 28 aprile) che fa slittare da gennaio a metà maggio l’aumento così da guadagnare mesi preziosi e «non votare il proprio suicidio»; le dimissioni, poi rientrate, di Fabrizio Viola come amministratore delegato; quindi la corsa contro il tempo con l’advisor Lazard, per vendere le azioni e pagare i debiti.

Lunga salita
La strada era tutta in salita ma alla fine due soci sono stati trovati. In America Latina: il fondo americano Fintech Advisory, guidato dal finanziere messicano (ma attivo in Argentina) David Martinez Guzman, e la società di investimento brasiliana Btg Pactual. A loro la fondazione ha ceduto — subordinatamente al via libera di Tesoro e Banca d’Italia — rispettivamente il 4,5% e il 2%, stringendo anche un patto di sindacato sul 9% complessivo (2,5% la quota della fondazione) che punta ad esprimere la maggioranza dei consiglieri nel nuovo board da votare nel 2015. Patto peraltro aperto ad altri soci, come ha detto la stessa Mansi. Tra soci esteri, vendite «goccia a goccia» sul mercato, piazzamento del 12% in collocamento accelerato con Morgan Stanley e cessione dei bond Fresh Mansi ha incassato circa 750 milioni, ha ripagato i debiti e si ritrova circa 300 milioni di liquidità da investire in altre attività redditizie, visto che Rocca Salimbeni non darà dividendi almeno fino al 2017. E grazie al patto parasociale si prenota il diritto di indicare il candidato presidente della banca.
Certo, c’è un abisso rispetto al 51% di Mps che Palazzo Sansedoni aveva ancora a inizio 2012: ma l’essere sopravvissuti è per la Mansi un motivo di grande soddisfazione. Non è stata solo bravura e determinazione: molto hanno giocato le circostanze esterne favorevoli. Ma la Mansi non si vergogna di essere stata fortunata. «È stata l’operazione più delicata mai vista», rivela una fonte molto vicina al dossier. «Se le cose fossero andate male, la fondazione sarebbe fallita, mettendo a rischio l’aumento di capitale. Se fosse saltato, la banca sarebbe stata nazionalizzata, con rischi di effetti a catena sullo spread italiano e potenzialmente sull’intero sistema bancario europeo».
Erano i rischi esposti da Profumo. Ma il mercato, imprevedibile, ha dato una mano, lo spread è sceso, la Borsa è salita, l’arrivo di Matteo Renzi al governo ha portato quella stabilità politica che gli investitori richiedevano. E forse qualcuno ha anche dato una spinta al titolo grazie a informazioni privilegiate: è in corso un’inchiesta di Consob e Guardia di Finanza sull’impennata del 30% in due giorni, a metà marzo, delle quotazioni Mps.
Inizialmente l’intenzione di Mansi era trovare una banca con cui condividere la governance di Mps. Sono stati interpellati molti soggetti, per lo più europei, ma a rendere difficili le cose è stata l’imminente asset quality review (la verifica dei bilanci della Bce): nessun istituto voleva rischiare di aggiungere alla propria debolezza l’incertezza legata alla salute di Mps. E poi i tempi di una due diligence sarebbero stati incompatibili con le esigenze della Fondazione. Troppo complicato: tanto che negli incontri con le banche sondate non si sarebbe mai arrivati a parlare di prezzo.

Meglio il mercato
Fondi sovrani e investitori istituzionali alla BlackRock stavano al secondo posto come potenziali partner. Proprio il colosso Usa è stato uno dei soggetti sondati da Lazard, ma il mega-fondo ha poi preferito comprare sul mercato (a metà marzo, con il titolo schizzato già attorno a 0,24 euro) a un prezzo stabilito in Borsa e non in una trattativa con la fondazione. Alla fine, il cerchio si è stretto attorno a Fintech e Btg Pactual, interessati a operazioni ad alto rischio-rendimento quale è la scommessa del tournaround di Mps portata avanti da Profumo e da Viola, che godono della fiducia dei nuovi acquirenti, e a un buon ritorno nel medio termine, visto che il vincolo sulle azioni è fissato a 24 mesi per Fintech e a 16 mesi per Btg Pactual.
Ma nel corso dei mesi non è stato escluso nessun interlocutore a priori, spiega un’altra fonte, anche i rappresentanti di cordate più o meno improbabili, tra le decine di interessati, italiani e stranieri, che si sono palesati. Anche Fintech e Btg si erano fatti vivi da tempo, pare fin da novembre, attraverso alcuni intermediari, ma solo due-tre settimane fa i colloqui sono ripresi e l’operazione è stata chiusa piuttosto rapidamente, e al telefono. Al contratto hanno lavorato i dirigenti di fondi e dell’ente, Lazard e i legali (lo studio Benessia Maccagno per la Fondazione, lo studio Cleary Gottlieb per i soci esteri). A Siena nessuno ha mai visto il numero uno di Fintech: di David Martinez Guzman hanno solo ascoltato la voce. Soprattutto quello «yes» che per la Fondazione Mps vale ancora, forse, la presidenza di Rocca Salimbeni.