Marco Bucciantini, l’Unità 5/4/2014, 5 aprile 2014
LA BATTAGLIA DEI SESSI – [SUL CAMPO DA TENNIS SI CONSUMÒ LA SFIDA IMPOSSIBILE UOMO-DONNA]
E dopo la tombola venne ir curturale. «Seduti per Dio!». Titolo e tema del dibattito: «Pole la donna permettisi di pareggiare coll’omo?». «No», dice lui. «Sì», dice lei. S’apre il dibattito, mentre il Cioni prova a riscuotere la sua tombola vincente. È la casa del popolo di Berlinguer ti voglio bene, affollata di personaggi teneramente volgari, animati da pulsioni primitive e dalla voglia di stare insieme. E dopo «il ricreativo» c’è da affrontare la questione della parità dei sessi. L’ignorante saggezza dei campagnoli di Giuseppe Bertolucci non riesce a prendere sul serio quella domanda, affogandola nella scurrilità più indecente. È buona – appunto – per prendersi in giro, per allenare la battuta oscena. Non sono personaggi deludenti, anzi, hanno una loro visione rivoluzionaria (molto di pancia) allacciata alle difficoltà della loro vita quotidiana. Ma quella domanda non li tormenta e quella risposta non li assilla perché non esiste.
Il confronto «intellettuale» è stato frustrato da anni di dominio culturale maschilista, strenuamente difeso e rinnovato dai proprietari del potere, fino a diventare sistema, struttura, costruzione di usi, costumi, linguaggio. Cambiare direzione è un progetto attuale e lontano, che sta ancora cercando condivisione ma che si nutre di esempi felici e crescenti. Nei Paesi occidentali i livelli d’istruzione delle donne sono superiori a quelli degli uomini: l’accesso alla classe dirigente politica ed economica resta invece complicato, subalterno, soprattutto nei ruoli apicali. Le «quote rosa» intervengono per creare densità ma quello che interessa è l’autenticità della domanda, in questo caso vera, verissima. Così come la risposta è certa, inequivoca: non esistono differenze se non quelle create da secoli di ostacoli frapposti fra le donne e certi ruoli nella società. Ma se c’è una strada «impraticabile», che finisce per ridurre tutto alla burletta vanificando perfino il più serio dei dibattiti è quella battuta da chi cerca la parità dei sessi nelle prestazioni fisiche legate allo sport. E per misurare queste due grandezze diverse, per rispondere a una domanda impossibile, inesistente, si è scelto il campo da tennis e il più sublime degli sforzi al singolare. Furono, allora, una serie di partite con vari interpreti, racchiuse in quasi 30 anni di tentativi sempre più parodistici e tutti identificati dallo stesso clamoroso titolo: la battaglia dei sessi.
Il «motore» di queste partite fu un ex tennista che avrebbe avuto un suo posto nella casa del popolo di Vergaio. Bobby Riggs aveva un passato prestigioso da difendere, ma se ne fregò. Vincitore di Wimbledon e Us Open a ridosso del 1940 non riusciva ahilui ad invecchiare in pace. Negli anni settanta, in pieno femminismo, sentì il bisogno di annunciare in conferenza stampa che a 55 anni avrebbe battuto agilmente le più forti giocatrici di tennis (allora, nell’ordine, l’australiana Margareth Smith Court e la californiana Billie Jean King). Bobby si definiva «un maiale sciovinista» e per esser chiaro ricordava che il posto delle donne era «a letto e in cucina, in quest’ordine». Questo frasario non adescò la King, attivista femminista, fondatrice della Wta (l’associazione professionistica che ancora oggi governa il tour femminile), protagonista delle lotte che riequilibrarono i premi e i diritti fra tennisti e tenniste, e (poi, sul finire della lunga carriera quando la propria omosessualità emerse durante la causa di divorzio dal marito) punto di riferimento del movimento gay e lesbo. «C’è un vecchio sfigato che perde i capelli e ci vede poco: non abbiamo niente da dimostrare né da guadagnarci», commentò, usando un plurale «movimentista». La Court invece accettò. E perse, malamente, 6-2 6-1: la partita si giocò domenica 13 maggio del 1973, il giorno della Festa della mamma, a Ramona, California. Sugli spalti c’era anche Billie Jane, che cambiò idea: «Adesso abbiamo qualcosa da dimostrare». Il superbo Riggs non aspettava altro.
Si giocò il 20 settembre dello stesso anno all’astrodomo di Houston, al meglio dei 5 set, l00mila dollari di premio che finirono nel conto corrente della donna. Trentamila persone intorno al campo, allestito per l’occasione. Novanta milioni di telespettatori in tutto il mondo. Il maiale sciovinista perse netto, 6-4 6-3 6-3. Billie Jean King lo tenne a fondo campo, spostandolo ai lati, avanti e dietro, logorando la sua tenuta fisica, rinfacciandogli un’età non più agonistica. Dopo il match Riggs si chiuse in camera d’albergo e per quattro ore non rispose agli amici che dietro la porta cercavano informazioni, temendo gesti autolesionisti.
La terza battaglia dei sessi allineò Martina Navaratilova e Jimmy Connors, già 40enne ma ancora nel professionismo. Fu nel settembre del 1992 al Caesars Palace di Las Vegas. Martina fu avvantaggiata da una modifica alle misure del campo: lei poteva usare anche il “corridoio”, appena più ridotto dalle misure del doppio. Jimbo poi aveva a disposizione un solo servizio. Vinse ugualmente, 7-5 6-2, picchiando sodo la palla, e aggiungendo quella sua tipica e innata tigna. Mai è esistito un tennista così ribelle alla sconfitta. Connors odiava perdere e giocò quella partita con impegno massimo, come fece la Navratilova, senza poterne però appaiare la forza.
La quarta battaglia dei sessi fu una sfida raccolta da Karsten Braasch, numero 203 del mondo, e lanciata dalle giovanissime sorelle Williams, che all’epoca avevano 17 e 16 anni. Venus e Serena si dissero in grado di sconfiggere qualsiasi tennista uomo posizionato oltre la 200ª posizione del ranking mondiale. Braasch giocò il primo set contro Venus vincendo per 6-2, poi sconfisse 6-1 Serena nel secondo set. Al termine, non fu signorile: «La partita avrebbe potuto essere interessante solo con un tennista posizionato intorno alla 600esima posizione...». Oppure poteva aspettare qualche anno, e sfidare Serena al massimo della forza, e con altri risultati, probabilmente. Vi furono poi altri match dimenticabili e ridicoli, Thomas Muster contro Sibille Bammer (vinse lui, ormai ex tennista), Justine Henin contro Yannich Noah, che si presentò al campo in reggiseno e minigonna (e vinse, nonostante fosse 22 anni più anziano).
Quello che emerge e nega la ragione di fondo di queste sfide è l’handicap che riguarda il contendente ritenuto più forte: l’uomo. È una battaglia che inquadra due posizioni definite e conclamate come diverse, che innesta una sudditanza a priori. Riggs si era ritirato dai tempi della guerra, Connors fu gravato di un regolamento più pesante (le altre sfide non hanno senso, e comunque c’è sempre un gap fisico o tecnico che cerca di livellare la faccenda). Non è una contestazione: è la domanda che non può avere risposta e porta in ambito sportivo è quanto di più ottuso si possa fare.
È un racconto distante dalla verità: la massima prestazione della donna è circa il 10% inferiore a quella dell’uomo. La performance sportiva di un atleta è data dalla somma di differenti qualità antropo-fisiologiche (genetiche e in parte acquisibili o migliorabili con l’allenamento ) e dalla somma di qualità tecniche, anch’esse genetiche e acquisibili. Se il gesto tecnico quasi mai scava differenze significative (almeno potenzialmente) fra i due sessi, la parte antropo-fisiologica certifica nella donna la minore massa muscolare, il minore volume cardiaco e la minore quantità di emoglobina. La statura media è anch’essa decisiva, e comporta – per esempio – che gli arti superiori risultano in media più corti nella donna (in assoluto e in rapporto al tronco). E quando gli arti fungono da leve ne consegue una minore potenza e resistenza e dunque efficacia, divario esaltato dalla differente composizione corporea: mediamente la massa grassa nella donna è del 25% mentre nell’uomo è del 15%. Il tessuto muscolare risulta circa del 36% nelle femmine contro il 45% dei maschi. Il cuore più capiente poi incide sulla capacità aerobica: il volume medio del cuore è superiore nell’uomo (800cc contro 650cc ). Ci sono altri dati, e «tirano» tutti dalla stessa parte. Nel lungo periodo alcuni di questi parametri possono avvicinarsi, confondersi, perché in parte sono dovuti all’uso che del fisico è stato fatto in questi secoli, più attivo l’uomo, mentre il corpo della donna è stato destinato quasi esclusivamente alla riproduzione, con conseguente minor sviluppo della massa muscolare e con notevole incremento della massa grassa, essenziale alla gravidanza e all’allattamento. Ma nel secolo scorso la donna ha cominciato a praticare sport regolarmente, arrivando all’agonismo in quasi tutte le specialità (non è stato automatico: la prima maratona olimpica femminile si è corsa a Los Angeles nel 1984...).
Eppure smerigliando quelle bizzarre sfide tennistiche dei fattori biologici (e psicologici) appena elencati, qualcosa rimane nel sedimento della storia. È una donna, una vittoria, comunque. «Pensavo che se non avessi vinto quella partita saremmo tornare indietro di 50 anni», disse Billie Jean, dopo aver stretto la mano al maschilista sconfitto. Quella partita (la seconda, fra le suddette) fu comunque un pezzo da incastonare nelle lotte civili del novecento, tanto che l’esercito della reazione e della conservazione cominciò a mettere in giro le voci secondo cui Riggs si era venduto il match per riparare a vecchi debiti di gioco, e che fosse intervenuta anche la mafia per truccare il gioco. Per molti quella data era un mondo nuovo, del quale non volevano sentire parlare. Innescava delle conseguenze: la vittoria della King incoraggiò molte donne in una società che cercava di agganciare il vento buono: d’altra parte, solo l’anno prima (nel 1972) l’America aveva dovuto approvare una legge che vietava le discriminazioni di genere nelle scuole e nello sport: dunque, queste discriminazioni c’erano. King ha raccontato di essere stata fermata più volte per strada da donne che confessavano alla tennista di aver trovato la fiducia e la fermezza per chiedere un aumento di stipendio al datore di lavoro, dopo aver visto la partita. Allora, le stesse mansioni venivano retribuite il 30% in meno alle donne rispetto agli uomini.
Nel 2009 Billie Jane King è stata la prima atleta donna a ricevere la medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza civile negli Stati Uniti: ad accompagnarla alla cerimonia c’era la sua compagna, a porre attorno al collo quella medaglia, fu il primo presidente nero della storia americana. Le cose possono anche cambiare.
Marco Bucciantini
mbucciantini@unita.it